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e politiche di Roma non venne disgiunto mai dalle cognizioni mediche; anzi queste prendevano origine e norma da quella.

Mentre Attalo ultimo Re di Pergamo nell' Asia Minore si occupava di botanica e di terapia, Mitridate componeva antidoti molto stimati (1) e ricercati tramandategli forse da un tal Zopiro medico di grandissimo grido (2), e il grande rivale di Cesare ordinava a Pompeo Leneo (3) di tradurre tutte le opere rinvenute nella reggia di Mitridate; Varrone valendosi anche della tradizione storica, veniva raccogliendo quanto di sacro e praticamente utile esisteva nella medicina romana.

Contemporaneo di Vitruvio, e di poco posteriore a Lucrezio aveva, dietro accurate osservazioni, gettato la base degli studii che la storia ci porge sulla natura del miasma palustre; giacchè le guerre civili e le private vendette avevano colla devastazione dei campi, cambiate le condizioni economico-agrarie di Roma, e ingenerato il maledetto principio della malaria. Quando in luogo di pochi jugeri concessi dalla legge a ciascun cittadino, si ebbero vaste e sterminate possessioni destinate solo a far vivere negli agi e nel lusso pochi doviziosi proprietarii, fu segnato il primo periodo dell'invadente corruttela e il primo vacillamento della minacciata repubblica. Allora la solitudine e la desolazione presero stanza ove per lo innanzi esistevano popolosi paghi, case coloniche, campi ubertosi.

I più illustri personaggi dell'epoca attesero allo studio della medicina, ma benchè non ignorassero quanto la effimera modal dei Greci avea cercato d'introdurre, si attennero sempre alle antiche consuetudini romane. Vedi mo infatti Varrone far progredire l'arte medica senza abbandonare i precetti di Catone e di Nigidio Figulo; e tutti indistintamente gli scrittori dell' epoca successiva, Columella, Palladio, Vegezio non recedere dalla stessa massima, ma in molte parti delle loro opere ricopiare esattamente o l'uno o l'altro dei succitati autori.

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Quando Varrone crede che senza ricorrere al medico o al veterinario, può conoscersi e mettersi in pratica tutto quanto concerne la salute degli uomini e degli animali; e parlando di questi ultimi prescrive al magister pecoris di tenere scritto un formulario di precetti e medicamenti per servirsene all'occorrenza (1), « quae ad valetudinem pertinent hominum ac pecoris, et sine <<< medico curari possint, magistrum scripta habere oportet », pone. il più giusto confine che possa mai esistere fra la superstizione del volgo e la necessità dei precetti medici. Non era già più l'epoca in cui Plauto andava dal medico semplicemente per prendere un tossico e darsi la morte; ma cangiate di molto le condizioni dei tempi e le opinioni degli uomini si consideravano le varie discipline sotto altro aspetto, e si stabiliva che alcune cose di pura pratica e consuetudine, giovevoli o quanto meno non dannose alla salute degli uomini e degli animali potessero liberamente essere usate dal volgo profano. Non così quando trattavasi di cose più · gravi risguardanti la salute privata e pubblica. Allora anche nelle cose spettanti all'igiene alimentare dell'uomo e degli animali stessi bisognava ricorrere al consiglio del medico, giacchè solamente in questioni di benessere materiale dell'organismo ed in determinate circostanze Varrone ammetteva doversi adoperare per proprio consiglio quei soli mezzi riconosciuti facili, ed utili per ottenere la guarigione quae sine medico curari possint ».

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CAPO XIII.

Asclepiade di Bitinia - Epoca di sua venuta in Roma; sua riputazione

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I. Oltre la metà del sesto secolo di Roma, Antioco Ascalonita, uomo di molta fama, insegnava in Atene le dottrine filosofiche. Tra gli studiosi accorsi da ogni parte ad udirlo due dovevano consegnare imperituro il loro nome alla storia. Essi erano Marco Tullio Cicerone di Arpino e Asclepiade di Prusa in Bitinia: l'uno oratore, statista, politico e filosofo; l'altro medico della scuola Alessandrina, e più tardi innovatore della medicina in quella stessa Roma, dove ambedue acquistarono grandissima celebrità.

Asclepiade che dalla natura aveva sortito ingegno pronto e sottile, dopo di avere sotto la direzione di Cleofanto suo precettore, esercitato per qualche tempo medicina in Alessandria e, come alcuni ritengono, anche a Paro e nell'Ellesponto, non avendogli arriso la fortuna in modo da soddisfare la sua smoderata ambizione, determinò, con l'esempio di tanti altri suoi colleghi, di recarsi in Roma. Quivi seguendo il costume universale di allora, o forse perchè poco trovava accoglienza la medicina greca, Asclepiade insegnò dapprima rettorica, bene avvisando che solo col professare l'arte oratoria, così in voga a quei tempi, potea acquistare intanto alte relazioni e potenti protettori. Infatti dopo poco tempo riuscì, non si sa come, ad entrare nelle grazie di

Lucio Licinio Crasso, uno dei più potenti personaggi di allora, che lo ammise alla sua confidenza e, per dimostrargli viemmeglio stima ed amicizia, si affidò alle sue cure.

II. Plinio (1) stabilisce la venuta di Asclepiade in Roma all'epoca dei maggiori trionfi del Magno Pompeo « aetate Magni Pompeij ». Però questa venuta di Asclepiade è molto controversa e dà luogo ad incertezze (2). Le parole di Cicerone quanto ad Asclepiade sono le seguenti: (3) « neque vero Asclepiades is, quo nos medico amicoque << usi sumus, tum cum eloquentia vincebat ceteros medicos, in « eo ipso, quod ornate dicebat, medicinae facultate utebatur, non << eloquentiae ».

III. Sembra che Cicerone quantunque amico e condiscepolo di Asclepiade alla scuola filosofica di Antioco Ascalonita in Atene non tributasse ad esso, come medico, molta fiducia, nè veramente fosse nel numero de' suoi clienti.

Infatti le parole di elogio che nel succitato dialogo gli rivolge mirano soltanto a far risaltare la valentia di Asclepiade nell'arte oratoria; e sono da Cicerone messe in bocca del console Lucio Licinio Crasso amico e protettore del nuovo medico, che valeasi assai dell'eloquenza per apparire eccellente in medicina.

Altre e più potenti ragioni avvalorano il suesposto dubbio, se Asclepiade di Bitinia fosse o no medico di Cicerone. Primieramente è noto che l'illustre Arpinate aveva « pochissima stima «< dei medici greci », come anche si rileva dalla lettera da esso scritta al suo liberto Tirone (4) afflitto da una grave infermità. In questa lettera Cicerone dice di aver molta stima del medico curante, un greco per nome Lisone, ma di crederlo alquanto trascurato come gran parte de'suoi connazionali. « Lyso enim noster << vereor ne negligentior sit, primum quia omnes Graeci ».

(1) PLINIO Lib. XXVI, cap. 3.

(2) PUCCINOTTI Storia della medicina; IV, cap. 9.

(3) CICERO

(4) CICERO

De Oratore; Lib. I.

Epist. IV ad Tironem; Lib. xvi.

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