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Senza perdermi nelle incertezze dei tempi anteriori a Roma, senza indagare se gli Aborigeni, i Siculi, ed altri abbiano occupato il suolo che la storia e la tradizione assegnano agli ardimentosi nepoti di Amulio e loro compagni ragunaticci e venturieri; tutti gli archeologi sono d'accordo nel considerare come Roma sorse anche anticamente laddove è al presente. Dal primo punto abitato, ossia dalla Roma quadrata di Romolo sul Palatino, il suo perimetro si estese gradatamente con maggiori ingrandimenti; il più notevole quello di Servio Tullio, fino a quello di Aureliano, ristaurato da Onorio che forma le mura della città ai nostri giorni. Come pure le condizioni geologiche non hanno gran che variato dai primi tempi di sua fondazione, non così le igieniche, di cui a suo luogo, quali hanno ispirato all'Aleardi di dare alla campagna Romana l'appellativo di

Calva, deserta come una maligna
Fascia di solitudine e di febbri.

II. Quella vasta estensione di terreno, che si chiama Agro Romano, non era però ridotta un deserto melanconico, come ai nostri tempi. Tutto lo spazio che intercede tra i monti Laziali, Lucani, e Prenestini fino alle piagge marine, avea città, paghi, villaggi, se non formidabili, abbastanza notevoli da opporsi all'impeto conquistatore dei primi Re guerrieri di Roma che a grande fatica poterono dilatare il nascente impero per le vigorose resistenze delle genti limitrofe etrusche, sabine e latine, popoli potentissimi in armi e in civili istituzioni. Nella riva destra del Tevere stanziavano gli Etruschi, e città poderose erano Vejo e Cere, con altre piccole città e borgate considerabili. Il Lazio sulla sinistra manteneasi potente per le città di Collazia, Coriolo, Satrico, Gabio, Ardea, Laurento; mentre che i Sabini, padroni del vasto territorio che si stende fra il Tevere e l'Aniene, possedevano Ameriola, Ficulle, Fidene, Cameria, Crustumerio, Antemna, Cenina, che figurano già nelle prime guerre di Romolo.

Di queste numerose città più non rimane vestigio non solo ai di nostri, ma erano scomparse dal mondo fin dall'epoca di Plinio, che nel solo Lazio enumera oltre varie clara oppida cinquantatre

popoli concludendo come non restava a suoi tempi più traccia di loro (1). « Ita ex antiquo Latio quinquaginta tres populi periere sine vestigiis. »

Sia per caso o per politico intendimento, che è ozioso qui investigare, il primo punto abitato da Romolo fu il Palatino esposto come il Celio e l'Aventino verso il mezzogiorno dell'attuale città. Numa vi aggiunse il Capitolino, e porzione del Quirinale. Tullo Ostilio circondò di mura e aggiunse agli altri il Celio. Anco Marcio forse l'Aventino; e ingrandì la città unendovi, mediante il ponte Sublicio, il Gianicolo.

Tarquinio Prisco e molto più probabilmente Servio allargò le mura di Roma dalla parte orientale costruendo la famosa cinta Serviana che contiene l'Esquilino e il Viminale e la parte del Quirinale non ricinta da Numa. Roma non ebbe ingrandimento maggiore dei suddetti fino all'epoca di Aureliano che aumentando la cerchia, forse per motivi strategici, sulla sponda sinistra del Tevere, impedì, secondo alcuni, il libero scolo delle masse delle sorgenti urbane. Queste sono le opinioni più comunemente accettate sia per tradizioni che per istoria, e che pienamente lascio discutere agli archeologi antichi e moderni (intorno a che regnano gravi questioni) non interessando per nulla al mio assunto. Basta ad uno studio topografico stabilire che la Roma attuale è la medesima di quella del suo evo primitivo come fu ingrandita dai Re, e che la parte del Settimonzio fu la prima abitata.

Lo stabilire le città in alto fu abitudine di tutti i popoli anche i meno civili, essendo nell'ordine naturale che le valli e i bassi fondi siano insalubri e privi della più sana aereazione dei luoghi elevati. Anche di Roma avvenne il medesimo, sebbene la prima località abitata non fu la più salubre come esposta ai venti australi. Ma forse necessità di forte ricovero, quale sembra essere stato il Palatino per Romolo e i suoi compagni, non fece avvertir molto le condizioni fisiche del luogo, rese peggiori dalla palude Velabra, che si estendea fra il detto colle, l'Aventino ed il Capitolino, ed era fomite di quella insalubrità che obbligò un completo

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lavoro di bonificazione e apertura di cloache al primo dei Tarquini. Cicerone poi lodando la elevata posizione prescelta da Romolo per costruire la sua piccola città, cioè il colle Palatino circondato dagli stagni Velabri, dice: « locum in pestilenti regione << salubrem ».

In tutto l'ambito dell'antico settimonzio le vallate basse e impaludate erano allagate dallo spesso elevarsi del fiume, che lasciando acque morte e melmose nel suo ritrarsi, aumentava le tristi condizioni; e molti impaludamenti non si disseccavano mai. Sui clivi vegetavano boschi di quercie, faggi, vimini, laureti, e mirteti. Le seminagioni e l'agricoltura in genere cedevano il campo agli armenti che poteano prosperare in tai luoghi, e le insidie della palude e la cattiva natura dell'aria poteano essere anche delle difese naturali dalle esterne aggressioni (1),

Però le molte selve doveano rendere più rigida l'aria, più fredda la temperatura, e il clima diverso. Per quanta fede meriti un poeta, Orazio vedeva permanentemente, sembra, le nevi sulla cima del Soratte, ciò che in seguito non si è che raramente osservato. Per la suddetta vegetazione arborea così spessa, anche il fiume Tevere non dovea essere così dannoso in tutte quelle gravi inondazioni che si sono verificate nei tempi successivi. Nel 480 di Roma, dopo quaranta giorni di neve agghiacciò il Tevere e molti alberi fruttiferi si disseccarono. Saserna, scrittore di cose agricole anteriore a Columella, e Varrone notavano che alcune contrade, ove per l'inverno freddissimo non poteano in addietro prosperare e viti e ulivi, a suoi tempi erano rigogliose per ricchi oliveti ed ubertosissime vigne. Plinio (2) attesta come gli antichi non pensar no mai che la vendemmia fosse matura innanzi l'equinozio, ma vedeva tutto il contrario a' suoi tempi. «Vindemiam antiqui nunquam existimavere maturam ante >> aequinoctium: iam passim rapi cerno ». E presso a poco sostiene il medesimo Varrone (3),

(1) CANTÙ CESARE

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Storia degli Italiani; Vol. 1, cap. 5. Torino, 1857. XVIII, 31.

De re rustica; 1, 21. Venezia, Curti, 1797.

III. In tali condizioni di clima diverso, la salubrità fu raccomandata alle selve, e nelle prime abitazioni di Roma si ebbe forse questo solo elemento igienico. Giova osservare come i primi Re non ebbero fissa la Reggia o dimora, ma abitavano a seconda delle varie stagioni in luoghi diversi, mossi forse da ragioni politiche e forse anche igieniche. Nell'area Capitolina abitarono Romolo, Tazio e Tullo Ostilio; Anco Marcio e Servio Tullo nel Palatino; Numa ebbe forse ricetto anche nel Gianicolo, ove certamente fu sepolto. Tarquinio Prisco abitò sotto il Palatino verso il foro boario, come pure Anco Marcio la cui casa guardava dove poi fu l'arco di Tito. Servio, il più distinto dei Re dopo Numa, oltre una reggia sul Palatino, sembra avere avuto altra casa verso il punto declive dell'Esquilie, ovvero nel luogo attualmente detto di San Lorenzo in Fonte, alle radici del clivo Cispio. E queste due dimore di Servio possono essere state consigliate al saggio Re da ragione di salubrità atteso che la bonificazione delle palude Velabra, eseguita dall' antecessore Tarquinio, non avea potuto rendere sicura l'abitazione sul Palatino, ma bensì fatta necessaria una stazione più sana nell'Esquilino, specialmente nei calori estivi (1). Sul che vedi i regionalisti.

IV. Considerata attentamente Roma nella sua natura geologica, è noto come il tufo vi abbondi e formi potentissimo sustrato (2). Ragionando dei vari colli settimonziali, quel tratto che va dal Campidoglio alla rupe Tarpea è d'indole vulcanica, petrosa, compatta, lavorabile con lo scalpello, di frattura terrea a frammenti di lava bruna. E per nulla differente è quello che ritrovasi nell'Esquilino e parte del Colle ove è sito il Tabulario, formato da tufo grossolano solido e bruno con cristallizzazione di carbonato calcareo oltre ad un sustrato di marna figulina che forma la base sotterranea dei depositi vulcanici della città intera. Nel Viminale trovasi un tufo bruno, friabile; nel Celio pure friabile, ma di colore giallo oscuro; e sull'Aventino arenaceo

(1) MINUTOLI (2) BROCCHI

De Domibus Romanorum; Diss. iv, 7.
Del Suolo fisico di Roma. Roma, 1820.

bigio, ed anche travertino bruno giallognolo, solido, cellulare a frattura semicristallina, che rimpetto a Testaccio assume aspetto di cannelli calcarei, striati fibrosi con incrostazioni di fusti vegetali.

Al Gianicolo, al Vaticano, al Pincio (anticamente monte degli orti) vedesi dovunque tufo or bruno, or biancastro, friabile, semifolioso, con ischeletri di fuchi diversi, gusci di testacei marini, impressioni di foglie d'albero, e dappertutto marna figulina, ciottoletti di lava bigia, granuli di lapilli terrosi, concrezioni calcaree e frammenti pumicei diversi.

Per cui la costituzione geologica di una buona parte dei sette colli di Roma è di tufo basaltico e pumiceo, il primo detto anche peperino; mentre il travertino che così pure vi abbonda non è che un tufo calcareo e compattissimo. Ciò dimostra che nel suolo romano preesistessero grandi sorgenti minerali calcarifere che per forza del tempo fecero di eguale natura le pianure, le roccie e montagne. Ed invero quel territorio è stato sempre abbondante di acque di siffatta natura. Ad esempio, presso Tivoli esiste tuttora un piccolo lago, dove, mentre il gas idrosolforicò si separa dall'acqua, in fondo si deposita una materia calcarea che mano a mano si condensa in concrezioni rotonde a strati concentrici, che formano precisamente quel travertino così abbondante non solo in Roma ma in tutta la campagna romana.

Da questi brevissimi cenni geologici si comprende facilmente come il clima di Roma dovesse fin d'allora essere molto umido, e i varii boschi lo rendessero inoltre freddo. Anche il Palatino, quantunque secondo le tradizioni sia stato il primo abitato, non potea essere affatto salubre, stante che restava a cavaliere della palude Velabra, innanzi il bonificamento praticato da Tarquinio Prisco. Infatti è tradizione che gli Aborigeni lo abbandonassero, e cercassero altrove soggiorno meno pestifero. Però dopo altre epoche sorsero anche li templi e nobili abitazioni. E parlando sempre dei tempi più oscuri, anche l'Esquilino, quantunque per posizione salubre, dovè abbondare di miasmi, se buona parte di esso fu dedicato ai puticuli o fosse pei cadaveri della plebe ro

mana.

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