Quale estimi ben sommo? Il sempre vivere Son bello. Il sii; a patto che non s'abbia Quando al mozzo sbracato grida : impiccati. Gran che! nullo si studia in se discendere, Nullo e soltanto a riguardar soffermasi : L'appesa al tergo anteríor bisaccia. Dimanderai: conosci di Vettidio Le tenute? Di chi? — Di quel ricchissimo Maledetto da Giove, e dal suo Genio Ma tu, che trinci altrui, se al sole in ozio populo marcentes pandere vulvas. Tu cum maxillis balanatum gausape pecias, Quinque palestritæ licet hæc plantaria vellant, 40 Cædimus, inque vicem præbemus crura sagittis : Vivitur hoc pacto: sic novimus. Ilia subter Si potes. Egregium cum me vicinia dicat, 45 Nequicquam populo bibulas donaveris aures. 5d Respue quod non es; tollat sua munera cerdo: Tecum habita; et noris quam sit tibi curta supellex. 1 Fiche squaderni del diretro al pubblico. Mentre la felpa profumata petfini Della mascella, perchè poi dall' inguine Raso ti guizza d'ogni pelo il tonchio? Ancorchè cinque palestriti svellano Quella selvaccia, e con mollette affliggano Le flosce chiappe, nò, per verun vomere Una felce siffatta unqua non domasi. Cosi tagliamo altrui le gambe, e stolidi Diam le nostre a tagliarsi; e così vivesi, Così noi stessi conosciam. Ti macera Occulta piaga il pube, ma ricoprela Largo aurato pendon. Dalla ad intendere Come ti piace, e se puoi, gabba i muscoli Dolorati. Ma egregio uomo mi predica Il vicinato non terrogli io credito? Se visto l'auro, o ghiottoncello, impallidi, SATYRA V VATIBUS hic mos est, centum sibi poscere voces, Centum ora, et linguas optare in carmina centum; Fabula seu mesto ponatur hianda tragado, Vulnera seu Parthi ducentis ab inguine ferrum. Quorsum hæc? Aut quantas robusti carminis offas Ingeris, ut par sit centeno gutture niti? Grande locuturi nebulas Helicone legunto; 5 Si quibus aut Procnes, aut și quibus olla Thyestæ Fervebit, sæpe insulso cananda Glyconi. Tu neque anhelanti, coquitur dum massa camino, Folle premis ventos: nec clauso murmure raucus Verba toga sequeris, junctura callidus acri, 15 SATIRA V. Ad A. Cornuto suo precettore. ANTICA NTICA d'ogni vate usanza è questa Cento bocche augurarsi e cento voci E cento lingue, o imprenda a cantar mesta Favola da gridarsi a larghe foci Dal Tragedo, o le piaghe de' traenti Dall' inguine lo stral Parti feroci. C. Dove scappi? A che tanti infarcimenti Giù t'incanni di carme giganteo Da voler cento strozze? Alti-loquenti Imbottin nebbia i vati, a cui d'Atreo O di Progne la pentola sobbolle, Frequente cena di Glicon baggeo. Tu mentre il ferro al foco si fa molle, Non premi i venti nel mantice anelo, Nè con chiuso romor non so che polle Grave gorgogli, che non vaglion pelo; Nè per iscoppio far gonfi la bocca. A pacato parlar tu drizzi il telo: Acre, unito, rotondo, e corto scocca. Tuo stil, radente i rei costumi, e fiedi La colpa d'uno stral che scherza e tocca.. |