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Quale estimi ben sommo? Il sempre vivere
Con lauto piatto, e sotto sole assiduo
Profumar la cotenna? Odi rispondere
Quella vecchia altrettanto. Or vanne, e spampana:
Io son figlio a Dinomaca. Sì? gonfiati.

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Son bello. Il sii; a patto che non s'abbia
Di te men senno la cenciosa Bauci,

Quando al mozzo sbracato grida : impiccati. Gran che! nullo si studia in se discendere, Nullo e soltanto a riguardar soffermasi

:

L'appesa al tergo anteríor bisaccia.

Dimanderai: conosci di Vettidio

Le tenute? Di chi? — Di quel ricchissimo
Che semina in Sabina quanto un nibbio
Non girerebbe. Di lui parli? Intendesi.

Maledetto da Giove, e dal suo Genio
Sai che fa? Quando attacca nel crocicchio
Il vomere, raschiando con cuor trepido
Il vecchio limo al botticello, un gemito
Rompe, e in se dice: i numi me la mandino
Buona. Quindi col sal morde le tunicke
D'una cipolla, e posta, con gran plauso
De' suoi famigli, una polenta in tavola,
Sorbe di morto aceto le filaccia.

Ma tu, che trinci altrui, se al sole in ozio
L'unta cute sporrai, non visto e prossimo
Tal v' avrà, che al compagno dia di gomito,
Acre sputando contra il tuo mal vivere,
Contra te, che il cotale e delle natiche
Ronchi i boschi segreti, e le già fracide

populo marcentes pandere vulvas.

Tu cum maxillis balanatum gausape pecias,
Inguinibus quare detonsus gurgulio extat?

Quinque palestritæ licet hæc plantaria vellant,
Elixasque nates labefactent forcipe adunca,
Non tamen ista filix ullo mansuescit aratro.

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Cædimus, inque vicem præbemus crura sagittis :

Vivitur hoc pacto: sic novimus. Ilia subter
Cæcum vulnus habes; sed lato balteus auro
Prætegit: ut mavis, da verba, et decipe nervos,

Si potes. Egregium cum me vicinia dicat,
Non credam? Viso si palles, improbe, nummo,
Si facis, in penem quidquid tibi venit amarum,
Si Puteal multa cautus vibice flagellas;

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Nequicquam populo bibulas donaveris aures. 5d

Respue quod non es; tollat sua munera cerdo:

Tecum habita; et noris quam sit tibi curta supellex.

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Fiche squaderni del diretro al pubblico. Mentre la felpa profumata petfini Della mascella, perchè poi dall' inguine Raso ti guizza d'ogni pelo il tonchio? Ancorchè cinque palestriti svellano Quella selvaccia, e con mollette affliggano Le flosce chiappe, nò, per verun vomere Una felce siffatta unqua non domasi. Cosi tagliamo altrui le gambe, e stolidi Diam le nostre a tagliarsi; e così vivesi, Così noi stessi conosciam. Ti macera Occulta piaga il pube, ma ricoprela Largo aurato pendon. Dalla ad intendere Come ti piace, e se puoi, gabba i muscoli Dolorati. Ma egregio uomo mi predica Il vicinato non terrogli io credito?

Se visto l'auro, o ghiottoncello, impallidi,
Se fai tutto, che detta la prurigine
Del menatojo che in amaro tornasi,
Se al Puteale il debitor tuo scortichi
Cauto usurajo, invan tu porgi al popolo
L'avide orecchie. I non tuoi merti al diavolo,
E le ciabatte al ciabattier. Teco abita,
E vedrai non t'aver che cenci e zacchere.

SATYRA V

VATIBUS hic mos est, centum sibi poscere voces,

Centum ora, et linguas optare in carmina centum; Fabula seu mesto ponatur hianda tragado, Vulnera seu Parthi ducentis ab inguine ferrum.

Quorsum hæc? Aut quantas robusti carminis offas

Ingeris, ut par sit centeno gutture niti?

Grande locuturi nebulas Helicone legunto;

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Si quibus aut Procnes, aut și quibus olla Thyestæ Fervebit, sæpe insulso cananda Glyconi.

Tu neque anhelanti, coquitur dum massa camino,

Folle premis ventos: nec clauso murmure raucus
Nescio quid tecum grave cornicaris inepte,
Nec stloppo tumidas intendis rumpere buccas.

Verba toga sequeris, junctura callidus acri,
Ore teres modico, pallentes radere mores
Doctus, et ingenuo culpam defigere ludo.

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SATIRA V.

Ad A. Cornuto suo precettore.

ANTICA

NTICA d'ogni vate usanza è questa Cento bocche augurarsi e cento voci

E cento lingue, o imprenda a cantar mesta Favola da gridarsi a larghe foci

Dal Tragedo, o le piaghe de' traenti Dall' inguine lo stral Parti feroci. C. Dove scappi? A che tanti infarcimenti Giù t'incanni di carme giganteo Da voler cento strozze? Alti-loquenti Imbottin nebbia i vati, a cui d'Atreo O di Progne la pentola sobbolle, Frequente cena di Glicon baggeo. Tu mentre il ferro al foco si fa molle, Non premi i venti nel mantice anelo, Nè con chiuso romor non so che polle Grave gorgogli, che non vaglion pelo; Nè per iscoppio far gonfi la bocca. A pacato parlar tu drizzi il telo: Acre, unito, rotondo, e corto scocca. Tuo stil, radente i rei costumi, e fiedi La colpa d'uno stral che scherza e tocca..

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