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Or d'Atene, or di Roma il popol folto Ti vedi innanzi, e fulminar da'rostri Tullio, e a suo senno trar del mobil volgo Il pieghevole cor, l'animo incerto. Stupido e muto alla grand'urna innanzi Mi prostro, e adoro colla fronte bassa Del sublime cantor l'Ombra onorata. L'alata Dea mi riconobbe, e un vivo Sguardo penetrator vibrommi, e tosto Si volse a me con salutevol cenno. Per man mi prese, e disse, o tu che sei Caro alle Muse, tu cui fe'natura Di sensibili fibre atte a destarsi Al mio possente tocco, io t'insegnai Per le scoscese rupi di Parnaso

A stampar con piè franco orme animose;
Gli attici sali ed i canori scherzi

Io ti dettai, con cui tu l'eleganti
Splendide inezie del galante mondo
Ricopristi di riso; ah lascia adesso
Gli scherzevoli motti, e lascia in pace
Dormir nell'ozio, e tra i pomposi nienti
La ridicola turba del bel mondo.

Nuovi pensier, nuov'ordine di cose,

Novelle forme a te finora ignote

A svelar mi preparo, è i maestosi

Quadri, che Apollo istesso ammira, e i sacri
Muri n'adorna del suo chiaro Tempio,
Pennelleggiati dalla mano ardita

Del gran Pittor, che quì mi siede accanto,
Fien scoperti a'tuoi sguardi, e delle Muse
Le più ricche aprirò splendide stanze.
Disse, e l'aura ta onnipotente verga
Mi stese in fronte, al di cui tocco, quale,
Se talor cade piccola favilla

Sopra salnitro e depura to zolfo,

Che il carbon polveroso in negri avvolse
Minutissimi grani, arde e halena

Subita fiamma, e con orrendo scoppio
Introna l'aria intorno, e crolla il suolo,
Tal scuotermi allor sento da improvviso
Moto inusato: un freddo gel per l'ossa
Rapido corre, indi il calor succede:
L'intime fibre un fremito soave
Ricerca dolcemente, irta diventa
L'irrigidita chioma, e la presenza
D'un Nume agitator sento nel petto.
Ove son'io? non è quello, che scorgo

Torreggiar maestoso, il Campidoglio (2)
Di Barbari e di Regi alto spavento?
Di corintie colonne, e di sublimi
Portici cinto, e d'ondeggiante turba
Ripieno, non è quello il Roman Foro?
Di parii marmi, e di spiranti e vive
Imagini adornato ecco là sorge
Di Pompeo il Teatro. Oimè che miro!
Fermati, o Bruto, il furíoso acciaro

A chi d'immerger tenti, oh Dio! nel seno?
Cesare non è questi? e non è questi
L'Eroe più grande che formò Natura?
Sì, ma grande lo fer così gli Dei

Per punire i Romani; al mondo, a Roma,
Ed alla Libertà vittima cada:

Già l'alte grida, e il popolar tumulto
Mi richiamano al Foro. Oh qual ti miro
Del maggior de'mortali esangue spoglia
Immobile gelata! jeri un tuo cenno (3)
Facea tremare il mondo: oggi ti giaci
Inonorata e sola! Ecco, o Romani, (4)
Il lacerato e sanguinoso manto
Del vostro padre: il dispietato Cassio
Qui lo stracciò con improvviso colpo:

Là Cimbro e Casca, e quà ficcò l'acciaro
Bruto inumano, e quando indi il ritrasse,
Mirate, oh Dio! qual rubiconda riga
Segnollo! ma già destasi l'insana
Popolar furia, già volano i dardi,
Le faci, i sassi, e dall'avare sponde
Sen fugge già la Libertà sdegnata.
La scena si cangiò, Roma disparve.
Queste di Cipro son le infauste arene. (5)
Rimira il fiero Otello, a cui nell'alma
Il freddo immedicabile veleno
Versò la gelosía; s'agita e freme

E tra la rabbia e tra l'amore ondeggia.
Vedilo tra le cupe ombre notturne,
Che all'incerto chiaror di fioco lume,
Irto le chiome, di pallor dipinto,
E terribili sguardi dai sanguigni
Occhi lanciando, alle fatali piume
Del nuzial mal augurato letto
Vacillando s'accosta, ove in tranquillo
Oblío composta, e del suo fato ignara
L'innocente cagion de'suoi furori
Dorme sicura; ecco la destra inalza
All'opra atroce; ma il gentile aspetto

Di lei che tenne del suo cor le chiavi;
Ma l'angelico volto, ov'apre il sonno
Novelle grazie, il palpitante seno
Par che nel cor feroce una scintilla
Destino di pietà. Sopra la guancia,
E sulla bocca, onde con lento moto
Esce spinto dal sonno alternamente
Il respiro soave, il fiero amante
Colle tremanti sue livide labbia
Imprime incerti baci: ecco gl'inonda
Involontario e disperato pianto
Le furibonde luci: ecco di nuovo
Il cor gli stringe e serra con gelata
Mano la gelosía, gli offusca i lumi,
Gli occupa i sensi... il fatal colpo è fatto.
Ma qual di larve piena, e meste voci

Di nottole e di strigi, al feral canto
Del querulo bubone, orrida notte
Di tenebre funeste ammanta il cielo!
Del tempestoso Baltico le sponde
Mi s'offrono allo sguardo, e tra l'incerto
Albór, che cade pallido e languente
Dalle tremule stelle, io già discerno.
Aguzzando le ciglia, la danese

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