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sformazione della cosa iegata manifestano il recesso del testatore della primitiva volontà di lasciare altrui quella cosa. La quale dopo l'alienazione non esiste più nel suo patrimonio, e si può dire non esista più anche quando abbia perduto la forma ed il nome precedente, e così sia divenuta una cosa diversa, nuova. Quindi è a credere che coll'aver tolto dal suo patrimonio l'oggetto del legato il testatore abbia voluto anche toglierlo a chi dal patrimonio stesso l'avrebbe ricevuto. In tale ipotesi ha fondamento la regola imperativa della legge.

E quanto all'incapacità o premorienza dell'erede o del legatario, se è naturale presumere che ciascuno contratti per sè e pei suoi eredi (1), non si può ritenere che altri voglia estendere agli eredi del beneficato le disposizioni testamentarie, suggerite il più delle volte da motivi personali di affetto e di gratitudine. Laonde « qualunque disposizione testamentaria sarà senza effetto se quegli in favore del quale è stata fatta non sia sopravvissuto al testatore o si trovi incapace » (2). « I discendenti però dell'erede o del legatario premorto od incapace subentrano nell'eredità o nel legato nei casi in cui sarebbe ammessa a loro favore la rappresentazione se si trattasse di successione intestata, eccettochè il testatore abbia altrimenti disposto, ovvero si tratti di legato di usufrutto o di altro diritto di sua natura personale » (3). Ora questa innovazione del nostro codice, a prescindere dall'alto interesse di moralità, di giustizia e di equità che l'appoggia (4), quando sia considerata, come vuol'essere, in rapporto ai principi che riguardano la sostituzione tacita, non contraddice alla teoria della presunta volontà del disponente. << E di vero, ove questo presidio di legge mancasse, ne segui

(1) Art. 1127.

(2) Art. 890 pr.; cfr.: art. 853.

(3) Art. 890 cap.; cfr.: art. 730, 732.

(4) Verbali, v. 30, n. 7.

rebbe che i discendenti del figliuolo premorto andrebbero ridotti alla sola quota legittima, il che ripugna certamente al voto presunto del testatore ed offende quella legge di uguaglianza che è l'obbiettivo così dell'uomo che dispone come del legislatore che ne interpreta gl'intendimenti. . . . . Ammessa per tali riflessi questa anomala rappresentazione testamentaria rispetto ai discendenti del figlio istituito, era ben diritto che il benefizio si rendesse comune all'altra ipotesi del fratello e dei suoi discendenti. Ma in ogni caso va inteso che la rappresentazione siffattamente appropriata alla successione testamentaria vien manco ove abbiasi una volontà contraria del testatore, sia espressa, sia desunta dalla intelligenza della disposizione medesima »> (1).

Anche l'istituto della collazione ha base positiva, se non razionale, nella presunta volontà del disponente. Ed in vero poichè è fatto obbligo al figlio o discendente, il quale succeda insieme coi suoi fratelli o sorelle, di conferire ai coeredi i beni ricevuti dal defunto per donazione, mentre è lasciata piena facoltà al donante, salvi i limiti della quota disponibile, di esimere dalla collazione il beneficato (2) pare manifesta l'ipotesi della legge: che cioè il donante non abbia voluto colla sua liberalità alterare la naturale eguaglianza fra i discendenti, ma solo favorire taluno di essi a titolo di anticipata successione (3). Ora che tale ipotesi mal regga ad un giudizio logico è agevole dimostrare. Perchè il fatto stesso del donare in proprietà i beni a questo anzi che a quel figlio mostra nel padre la intenzione

(1) Relaz. senat,, 216; confor.: Relaz. minist., 117. (2) Art. 1001, 1002.

(3) Pasquale Melucci, Trattato teorico-pratico delle collazioni ed imputazioni secondo il codice civ. italiano. Torino, 1880; I, 26; — G. P. Chironi, Della collazione secondo la legge romana ed il codice civile italiano. Cagliari, 1881; sez. I, c. III.

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di non mantenere l'eguaglianza. Onde « più che il silenzio del disponente ci vorrebbe un argomento positivo per presumere che egli voglia reintegrata fra i suoi eredi quell'uguaglianza che aveva durante la sua vita spontaneamente rotta e disconosciuta » (1). Del resto (1). Del resto o si voglia giustificare la disposizione dell'articolo 1001 per alte ragioni di equità e di pubblico interesse (2); o si ravvisi « più logico e rispondente ai criteri di quella filosofia pratica e sperimentale che dev'essere la guida dei legislatori il presumere, come pei legati (art. 1008), l'assolutezza e l'efficacia compiuta della donazione, salvo al disponente il diritto di imporne la collazione espressamente » (3) — a noi importa constatare che l'istituto, qual'è ordinato dal codice, ha base nella presunta volontà del disponente. Onde le controversie di fatto circa l'obbligo della collazione si risolvono indagando quale nei singoli casi, secondo le circostanze e l'entità patrimoniale, sia stata la probabile intenzione del defunto.

Or questo è il luogo di considerare l'articolo 811: « Il valore della piena proprietà dei beni alienati ad un legittimario a capitale perduto, o con riserva di usufrutto, sarà imputato alla porzione disponibile, e l'eccedente se ve n'è sarà conferito alla massa ». Dalla natura degli atti e dalla qualità delle parti contraenti emana il sospetto di una simulazione. Forse l'apparente contratto a titolo oneroso nasconde una vera liberalità. Tuttavia l'ipotesi non è elevata al grado di presunzione legale, ma offre semplicemente la base ad una regola conciliativa di opposti interessi (4). La quale non ha più ragione di applicarsi quando l'assenso degli altri legittimari all'alienazione elimini il dubbio sulla vera natura dell'atto (5).

(1) Melucci, I, 26; contro: Chironi, c. III, testo e nota 4. (2) Melucci, I, 28.

(3) Id., I, 26.

(4) V. più avanti, § 9 di questo capo, pag. 134 ss.

(5) Art. 811 cap.

Anche a giustificare la diversità di trattamento fra disposizioni contrattuali e testamentarie per quanto riguarda le condizioni impossibili (1) furono allegati criteri presuntivi. Le parti assoggettando un contratto a condizioni fisicamente, moralmente o giuridicamente impossibili hanno voluto scherzare più presto che contrattar per davvero; ma non burla chi dispone dei suoi beni nell'imminenza o col pensiero della morte. Onde si reputa addietta erroneamente la condizione impossibile, ed a ciò i beni seguano le sorti divisate dal testatore si ha per non apposta. È la teoria che nell'antico diritto per opera dei Sabiniani trionfò sulla contraria dei Proculeiani (2), i quali volevano uguale l'effetto delle condizioni impossibili in materia di contratti e di testamenti, cioè la nullità della disposizione condizionale. Più conforme questa seconda dottrina ai principi rigorosi della logica. Invero la condizione impossibile o è indizio di mente delirante nel testatore o, se pensatamente addietta, fa presumere ch'egli non volesse beneficare quello a cui vantaggio dettava l'illusoria disposizione. La quale in ambo i casi dovrebbe, come nei contratti, restar senza effetto. Nè si adempie, anzi si elude la volontà del testatore avendo per non scritta la condizione realmente apposta. Onde il principio sancito dall'articolo 849, anche se poteva giustificarsi nella legislazione romana per lo spirito di quel diritto successorio, non si doveva accogliere nei codici moderni. Tuttavia nel nostro la donazione, che ha carattere spiccatamente contrattuale, subisce circa le condizioni impossibili la sorte dei contratti (3), il che è già un passo innanzi alla legge francese in cui le donazioni sono anche per questo riguardo assimilate ai testamenti (4).

(1) Art. 849, 1160.

(2) § 10, I., De hered. instit., II, XIV; 1. 45, D., De hered. instit., XXVIII, V; 1. 1, 6, 9, 14, 15, D., De cond. instit., XXVIII, VII. (3) Art. 1065.

(4) Cod. civ. franc., art. 900.

E venendo alla materia delle obbligazioni, certe regole di ermeneutica contrattuale già fermate dalla scienza, poi accettate dalla legge (1), hanno base logica e positiva nella supposta volontà delle parti, giusta il principio inoppugnabile che nei contratti si deve indagare quale sia stata la comune intenzione dei contraenti (2). Alludiamo agli art. 1132 e seguenti fino al 1139, toltone il 1137. Il quale, a nostro avviso, non è che l'applicazione pura e semplice dei principi generali sull'onere della prova. Chi domanda l'esecuzione di una obbligazione deve provarla (3), dunque ogni clausola, ogni espressione del contratto alla quale si attribuisca un significato di obbligazione deve mostrare chiaramente questo significato. Quando vi sia oscurità, ambiguità, incertezza, la pretesa obbligazione non è provata e il preteso debitore è libero. Ecco perchè « nel dubbio il contratto s'interpreta contro colui che ha stipulato ed in favore di quello che ha contratta l'obbligazione» (4).

Altre disposizioni in materia contrattuale fondate sulla presunta volontà delle parti sono quelle che riguardano l'imputazione dei pagamenti (5); l'adempimento della obbligazione a cui non sia apposto termine (6); la condizione risolutiva sottintesa nei contratti bilaterali (7); la scelta della cosa da pagare nella obbligazione alternativa in cui il diritto di scelta non sia stato

(1) Verbali, v. 33, n. 7.

(2) Art. 1131.

(3) Art. 1312. V. parte I, cap. IV.

(4) Art. 1137; cfr.: art. 1326. << Gli obblighi contratti bisogna bene che si provino nella loro sostanza e nei loro limiti da chi ne pretende l'adempimento. L'oscuro e l'ambiguo non provano nulla ». Giuseppe Polignani, Di un'antica regola di diritto (interpretatio contra stipulatorem) riprodotta nel cod. civ. it. Filangeri, VI (1881), I, 1 a 13.

(5) Art. 1256 a 1258.

(6) Art. 1173.

(7) Art. 1165.

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