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morale se non una probabilità? Rispondano gli stessi autori: << Nelle cognizioni e prove che si acquistano e nei giudizi che si pronunciano col mezzo della induzione morale, la possibilità assoluta del contrario non è mai tolta. . . Quindi è che diciamo esistere la certezza, perchè rimane esclusa ogni probabilità del contrario, ma solo esistere la certezza morale, non la certezza assoluta, perchè del contrario, se non la probabilità, rimane certamente la metafisica possibilità » (1). Ed allora il sillogisma, a nostro avviso, corre spedito. La certezza morale è una probabilità, sia pure fortissima, ma le presunzioni semplici possono dare una « somma probabilità » (2), dunque possono indurre la certezza morale. Pertanto sono una prova di diritto comune. Dice il Pescatore: « La qualità e il numero dei testimoni o dei più autorevoli documenti potranno bensì generare una irresistibile convinzione, ma in senso assoluto il contrario non è impossibile: che i testimoni ingannino o siano ingannati, che i documenti falliscano, si crederà con ragione a tutti i gradi improbabile, ma non si afferma che ciò sia matematicamente, fisicamente o intuitivamente impossibile» (3). E tuttavia la prova per testimoni, come sostiene lo stesso Pescatore, e quella per atti scritti, come niuno dubita, sono di diritto comune. Ora, noi facciamo lo stesso ragionamento per le presunzioni semplici. Anche queste, quando siano gravi, precise e concordanti come le vuole la legge (4), non escludono tuttavia in senso assoluto la possibilità del contrario, ma sono idonee a generare una convinzione irresistibile non meno che le prove per testimoni e per documenti. E come queste due appartengono al diritto comune, di diritto comune è anche la prova per presunzioni semplici. La

(1) Pescatore, p. I, c. XIII; confor: Mattirolo, II, 224, 225. (2) Pescatore, ivi.

(3) Ivi.

(4) Art. 1354.

quale per conseguenza vorrà ammettersi nei casi dubbi, e saranno da interpretare estensivamente le regole che ne consentono l'uso, strettamente le eccezioni che lo vietano (1).

§ 5.

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Così abbiamo indicati i punti di differenza tra le presunzioni legali e le semplici. Queste e quelle per altro sono ugualmente induzioni dal noto all'ignoto (2). Onde una regola comune: Non ha luogo presunzione se i fatti, dai quali si argomenta per risalire all'ignoto, non siano pienamente provati. È un errore logico diciamo senza esitare questo del Domat: « La certezza e l'incertezza delle presunzioni e la forza che possono avere per servire di prova dipendono dalla certezza o dalla incertezza dei fatti da cui esse si ricavano » (3). È un errore logico ripetuto dal Duranton (4) e da quanti con lui pensano essere grave la presunzione dell'uomo allorchè scaturisce « da fatti assodati e certi, non supposti ed ipotetici » (5). Mentre là dove il fatto da cui si argomenta sia incerto, supposto, ipotetico, ivi non è presunzione nè forte nè debole, perchè manca un estremo essenziale: il fatto noto. E ciò si dica per la presunzione legale come per la semplice (6), da che quell'estremo sia comune ad entrambe.

(1) Regole ed eccezioni di fronte alla logica giuridica; nel codice eccezioni e regole. V. parte III, cap. I.

(2) Art. 1349; v. parte I, cap. I, § 1.

(3) V, lib. III, tit. VI, sez. IV, 3.

(4) VII, 533.

(5) Pitari, Presunzioni hominis; confor.: Mattei, IV, art. 1354. (6) Art. 1349; v. parte I, cap. II, § 2.

CAPO IV.

Le presunzioni e l'onere della prova.

Il principio che regola l'onere della prova nel giudizio è stato da noi espresso con questa formola generale: Chiunque voglia far valere un diritto in via di azione o di eccezione deve provare i fatti positivi o negativi sui quali il preteso diritto si fonda (1). La prova del fatto è diretta o indiretta, la indiretta si chiama presunzione. Conseguentemente quando si dice che le presunzioni addossano il carico della prova all'avversario non si afferma nessun carattere particolare ed esclusivo delle presunzioni, ma si enuncia l'effetto generale di tutte le prove. L'attore, ad esempio, ha provato il suo credito. La prova, qualunque sia, dell'attore impone al convenuto che non voglia soccombere l'obbligo di un'altra prova, di dimostrare, supponiamo, che il debito fu pagato. Allora il carico della prova è nuovamente addossato all'attore, il quale dimostrerà che il pagamento non ebbe luogo o fu di altro debito. E avanti. Siano quelle dell'attore o del convenuto prove dirette o siano presunzioni legali o semplici, la cosa non cambia. Dunque se si dice che le presunzioni legali fanno prova (2) e che le presunzioni semplici fanno prova quando siano gravi, precise e concordanti (3) è detto tutto. È detto anzi più esattamente che coll'altra formola: le presunzioni addossano il carico della prova

(1) V. parte I, cap. I, § 1.

(2) V. parte II, cap. III, § 1.

(3) V. parte III, cap. II, § 1, in principio.

all'avversario; perchè questa formola non conviene alle presunzioni legali assolute (1).

Ma il principio che regola l'onere della prova dev'essere tenuto nei suoi limiti razionali. Chi vanta un diritto non è obbligato a dare la prova di tutte indistintamente le condizioni di fatto su cui il diritto si fonda. Così se il fatto allegato a base del diritto sia una convenzione chi vuol far valere il diritto deve provare semplicemente la esistenza della convenzione, cioè l'accordo delle parti nel costituire, regolare o sciogliere fra loro un vincolo giuridico (2), ma non ha obbligo di provare tutte le condizioni di validità del contratto: che i contraenti erano capaci di obbligarsi, che il loro consenso non fu dato per errore nè estorto con violenza nè carpito con dolo, che l'oggetto del contratto era una cosa commerciabile, che l'obbligazione ha una causa lecita, che concorrono con questi requisiti generali (3) tutti i requisiti speciali del contratto in parola. La prova di tutte queste condizioni di fatto sarebbe laboriosa, dispendiosa, lunga, difficilissima, talora impossibile. E non è richiesta. Perchè, come spiega lucidamente il Fitting (4), una certa forma del rapporto di fatto è considerata come normale e sottoposta a regole generali (precetto-regola): tutte quelle forme che deviano dalla normale sono governate da disposizioni particolari (precettoeccezione). E chi vuol far valere un diritto deve provare semplicemente i fatti che, secondo il rapporto normale, generano quel diritto e reclamano l'applicazione del precetto-regola; chi contesta il diritto deve provare i fatti anormali che ne impediscono l'esistenza e rendono applicabile il precetto-eccezione.

(1) Art. 1353; v. parte I, cap. II, § 2.

(2) Art. 1098.

(3) Art. 1104 a 1122.

(4) Onere della prova, XVI, XVII. - Cfr.: Pescatore, p. I, c. XV; Mattirolo, III, 374.

Il criterio per distinguere il rapporto normale di fatto dal rapporto anormale onde l'applicabilità del precetto-regola o del precetto-eccezione, e l'obbligo della prova a chi vanta o a chi contesta il diritto non è un criterio determinabile a priori in forma generale nè dipendente in modo assoluto dalla frequenza numerica, nè desumibile in tutti i casi dalle espressioni della legge. Ma è un criterio che si deve cercare nei principi razionali della logica giuridica, nei « principi generali di diritto » (1) che informano la legge positiva. Così si manifestano come normali condizioni di fatto la sanità di mente, la rispondenza della esterna dichiarazione alla interna volontà, la commerciabilità delle cose, la esistenza di una causa ad obbligarsi (2) e di una causa non avversa al diritto ed alla morale. Per ogni deviazione da questi rapporti normali di fatto la legge ha precetti singolari, che riguardano la infermità mentale od altra causa di incapacità a contrattare, i vizi del consenso, errore, violenza o dolo, e così via. Onde colui che vanta un diritto in base ad una convenzione proverà unicamente la esistenza della convenzione che, secondo il rapporto normale di fatto, genera quel diritto; e chi contesta il diritto dovrà provare i fatti anormali che ne impediscono l'esistenza, provare che il contratto non è valido per incapacità delle parti o per vizio di consenso o per altro motivo. L'erede testamentario per avere i beni che gli sono devoluti prova la sua qualità, e cioè che egli fu nominato erede nel testamento del de cuius, ma non prova tutte le condizioni di fatto normali che concorrono a dar vita al diritto dell'erede (capacità del de cuius a far testamento e dell'erede a ricevere per testamento, libertà di volere e sanità di mente nel testatore, validità del testamento per le disposizioni intrinseche e per le forme estrinseche, man

(1) Cfr.: art. 3 delle disp. prelim. del cod. civ. (2) Art. 1121.

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