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abbiamo corpo, mente e cuore: dunque dovremo apprendere a conservare, il corpo, a ben dirigere e le facoltà della mente e le tendenze del cuore. Ma noi non siamo soli e dobbiamo vivere cogli altri: dunque dovremo e con lo studio della storia cercare di conoscere l'uomo, e apprendere e ciò che dobbiamo praticare verso di lui, e ciò che abbiamo diritto di ripeterne, e studiare tanto il proprio linguaggio per manifestarci vicendevolmente ciò che ci occorre, quanto l'altrui linguaggio per poterci tenere in comunicazione pur cogli estranei, e raggiungere la eloquenza più efficace per conseguirne ciò che vogliamo.

Conosciuto uomo, dobbiamo singolarmente conoscere la nostra abitazione, cioè la terra che ne accoglie, il cielo che ci sta sopra, l'atmosfera che di sè ci ravvolge. Ma perchè non ci alziamo alle cognizioni astratte se non per via di quelle che abbiamo ricevute col mezzo de' sensi, così da queste dovranno principiare i nostri studj. La storia naturale adunque sarà quella, dalla quale dovrà il giovane allievo attignere alcune leggiere notizie, incominciando dal regnò niinerale ch'è dei tre regni della natura il più semplice, seguendo col vegetabile, e più a lungo finalmente intrattenendosi nella storia degli animali. Alla storia naturale si congiunga la fisica, mentre questa mette al cimento la natura che nell' altra solamente si osserva;'e'ne comincino le prime lezioni da esperimenti facili a farsi intorno a cose facili a concepirsi. Ma nel mentre che il giovanetto si eserciterà nella fisica, converrà destinargli qualche ora eziandio alla scienza del calcolo, o a quella delle grandezze; scienza indispensabile affatto dove si tratta di conoscere e determinare la quantità e il valor delle forze e de' lor risultamenti con precisione, per non cadere in gravissimi errori. E qui dovrà la intelligenza del maestro andar disponendo le cose in modo che queste due scienze della fisica e del calcolo progrediscan di pari passo. Le prime quattro sì facili operazioni dell' aritmetica si possono apprendere dal giovanetto con buona riuscita assai per tempo: l'indole e la capacità di lui siano norma quale studio convenga ch' egli ne faccia il primo, se dell' algebra o della geometria. Ma innanzi che si consacri alio studio della geometria, gliene si facciano conoscere le figure, e lỡ si avvezzi a delinearle accuratamente, col qual mezzo renderà più famigliari, e potrà dappoi con men di fatica e più di soddisfazione farne i convenevoli paragoni, e dedurne le proprietà. La dimostrazione de' teoremi e la soluzione de' problemi sia sempre accompagnata da brevi scolj che ne facciano conoscere all' allievo l'uso, e quindi l'utilità e importanza; rendendosi così men arido lo studio, vieppiù arricchendosi di cognizioni la mente, e avvezzando ad applicare i principj generali ai casi particolari, ch'è quanto a dire, formando filosofico e riflessivo lo spirito.

e se le

Applicate così le matematiche alla fisica celeste e terrestre, potrà ailievo darsi alle ricerche metafisiche senza pena veruna. Ma con quelle s'intertenga, e con la dovuta moderazione, solamente sopra Iddio e l'anima umana, abbandonando tutti quei

ritrovati, i quali non servono che a farci credere di saper quello che non è dato a noi di poter conoscere. E giacchè la logica è tanto connessa alla metafisica, che non è possibile di separarnela affatto, di ambedue si faccia una sola scienza; e perciò nel tempo stesso che si considera la mente, distinguendone le varie facoltà e discoprendone l'uso, se ne deduca altresì di mano in mano per via di corollario, o vi si aggiunga a modo di scolio la maniera di dirigerle, ch'è quanto a dire le regole della logica. Allorchè abbiasi di già notizia de' principi della metafisica e della logica, ci si dia, come voleva pur Locke, allo studio della grammatica, giacchè l'analisi del pensiero deve precedere l'analisi del linguaggio.

E dall' analisi della mente l'alun passerà all'analisi del cuore ; poichè conosciute le forze dell' intelletto, e imparato col soccorso della logica a ben dirigerle, e a farne un retto uso, sarà meglio in istato di penetrare, senza smarrirsi, nei più secreti suoi ripostigli, e scorgervi le più occulte sue molle. S'alzerà quindi alla prima cagione di tutto ciò che è creato, per conoscere la necessità di quell' essere eterno, ed iscoprire i divini attributi della sua incomprensibile essenza. Già deve averne attinte assai di buon'ora le prime notizie ai fonti della rivelazione, ed ora i lumi suoi naturali gliene renderanno ragionevole e la credenza e l'ossequia.

Sin qui studiatosi dall'allievo l'uomo in sè medesimo solamente, gli resta tuttavia da studiarlo nella società de' suoi simili. Così è venuto per lui il tempo di pigliar in mano l'istoria, per conoscerlo con l'ajuto di questa, eziandio nella vita sociale. Ma questo studio della storia deve farsi consistere nella ricerca e nell'esame di tutto quello che può avere contribuito alla felicità o alla miseria, alla forza o alla debolezza, all' ingrandimento o alla decadenza, alla conservazione o alla rovina delle nazioni. Da ciò si vede convenirsi uno studio di questa fatta ad una mente esercitata e matura, avendosi per altro dovuto nella sua tenerezza prepararvela con lo studio delle varie epoche del mondo, de'suoi antichi abitatori, de' suoi imperj più famosi e di sne rivoluzioni più numerose. Anzi se sulla carta gli si faranno osservare i luoghi ricordati nelle storie, avrà risparmiata la pena di apprendere la geografia coi tediosi metodi praticati quasi comunemente. Nella storia avrà raccolta la materia da cavarne i principj del diritto naturale, del diritto civile e del diritto delle nazioni, delle quali tre scienze dovrà allora occuparsi, chè quanto al diritto pubblico potrà poscia apprenderlo da sè medesimo, qualora vi si trovi disposto,

Ora che l'allievo è fatto conoscitore della mente e del cuore, si applichi pure allo studio della eloquenza, mentre si troverà in grado di potere e convincere la cagione, e muovere la volontà; studio che a nulla giova, quando si faccia innanzi di avere ottenute le accennate cognizioni.

Lascia l'ab. Colombo di parlare di que' studj che sono piuttosto di una lodevole curiosità che di una vera importanza nel

T. X.

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l'uso del vivere, alcuno de' quali diviene talvolta necessario solamente a chi sia destinato al governo ed all'amministrazione dello stato; e lasciato pur di parlare dello studio della poesia non sapendo egli di quanto profitto esser possa alla più parte di quelli che la coltivano, riconosce però che ad ogni modo sarà bene che il giovine alunno пе conosca le grazie, oltre alla misura e l' andamento del verso che non è bisogno d' uno studio particolare.

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Ma mentre negli altri studj si esercita, non deve il giovane tralasciare quello della lingua materna, a cui deve attendere indubitabilmente a preferenza d'ogni altra. A questa potrebbe tosto aggiungere la francese, che più di leggeri s'imparerebbe da lui per la sua conformità con la nostra: pure non potendo nuocere più che tanto il differirne l'acquisto a più tarda stagione, importerà assaissimo che cominci per tempo lo studio della lingua latina, della quale sarà bene che vada apparando i termini di mano in mano che andrà conoscendo le cose, lasciando quelle tante e tanto nojose regole di casi, di declinazioni e di conjugazioni. Allora alla lingua latina si faccia succedere la francese, differendo a più tardo momento la greca, la quale ricercando assai lungo tempo e grandissima applicazione, potrebbe distorre di troppo il giovane dagli altri studj a lui necessarj come per la mancanza del tempo converrà ritardargli pure lo studio della lingua inglese.

Questo è il metodo che sembra all' ab. Colombo, che a un di presso si potrebbe seguire negli studj, dovendosi dovendosi però sempre accomodare all' indole e alla capacità del discepolo; e questo metodo, a cui abbiamo cercato di tener dietro con le nostre parole, egli lo espone con quel suo stile limpido e chiaro. Ma questo metodo potrebbe seguitarsi da pochissimi precettori giacchè pochissimi sono quelli che si possano pareggiare con I ab. Colombo, dottissimo a un tempo e nelle lettere amene nelle scienze più sublimi. G. d. I. L. d. P,

CORRISPONDENZA.

Al sig. X. Z. uno dei Compilatori dello Spettatore
italiano (1).

Signore,

Dando voi ragguaglio dello stato attuale della letteratura nel regno di Napoli (al Suppl. del n.° 74 Spett. str.), dopo aver meritamente commendato alcuni parti letterari dell' ab. Romanelli, del Giustiniano, del M. Vivenzio, del Boccanera, del Genoino Sperduti, Taddei ed altri, aggiungete «Gran desiderio si è destato in tutti gli amatori delle buone poesie toscane di veder compiuto un poema su Lorenzo il Magnifico, scritto dal ch. M. di Montrone, purissimo e colto scrittore de' nostri tempi, noto per le auree sue rime a chiunque professi buone lettere, del quale a ragione s'insuperbisce Napoli, che può contrapporlo con fidanza a' migliori poeti che vantino le altre provincie d'Italia ».

E a che proposito, mi direte, rammentarmi questo mio giudizio? Forse il disapprovate? No certamente, vi rispondo, ma vorrei che lo confrontaste con altro giudizio posto nel n.o 2 dell'anno 1 del Giornale Enciclopedico che si stampa nella patria stessa del vostro encomiato Marchese, là dove si parla degli Onori funebri di G. Paesiello. Quivi fra le molte composizioni poetiche si distinguono con bella lode quelle sole dei signori Gargallo, Mazzarella, Ventignano, de Ritis, Genoino e Ruffa, non solo si tace artatamente il nome del Montrone, ma certe sue stanze, nelle quali ei pianse la morte di Paesiello, sono chiamate a rigoroso sindacato. Leggete, leggete, sig. X. Z., e troverete quel vostro purissimo e colto scrittore, del quale dovrebbe Napoli insuperbirsi, trasformato da un suo compatriota in un ridicolo imitatore del B. Jacopone e delle ferventesi del Cavalca, e come ciò non bastasse, in un Fidenzio.

e

Certamente il festivo Bellincione chiamerebbe l'Autore di quel sozzo articolo

e il Varchi

Un certo sgraziaton cervel balzano;

Un cervello eteroclito e stravolto.

Ma io crederei di poter sostenere che quel povero diavolo sia soggetto a quella malattia che si chiama Capogiro, che noi ani

(1) Non possiamo per più rispetti dispensarci dal pubblicare il presente articolo. I Compilatori del Giornale Enciclopedico di Napoli non vorranno, speriamo, concepirne rancore contro di noi, i quali abbiamo spesso inserito articoli assai pungenti, diretti contro noi stessi. I Compilatori dello Spettatore.

mali bipedi abbiamo in comune con certi quadrupedi, e poi lo assomiglierei a certa antica vecchia di Pantaneto, che senza aver nulla in bocca da mordere ragumava tra le disarmate gengive la propria saliva. E a vero dire non è egli un ehiarissimo indizio di capogiro il temere di leggere Policratas (1) e Smerdias invece di Policrate e Smerdia, quando cotali nomi si trovano scritti con questa seconda desinenza, e quando nei versi antecedenti, tutti belli, sonori e ben coniati, niente si trova che possa eccitare un simil timore? Ma l'Ipercritico ci trova qualche cosa, e ripertando sette od otto versi che si ristringono nei tre seguenti:

Ma ohimè ch'anco Neron pulsa la cetra

Là di Jerusalèm su la ruina

Et altri che pur dentro mi fan guerra

ci lascia indovinare in che cosa questi versi somigliano a quelli di D. Fidenzio. Indoviniamolo adunque, poichè pare ch' egli siasi vergognato di dirlo chiaramente. E' ci pare adunque ch' egli trovi lo stile Fidenziano in quelle tre voci pulsare, Jerusalem, et. Dio buono! Tre sole voci adunque, la prima delle quali è la più atta frase, ed usata da Lorenzo de' Medici e da altri maestri, la seconda da Dante e la terza che si trova non solo in quasi tutti gli antichi scrittori, ma in moltissimi ancora del 500; queste, dico, tre sole voci in circa 20 stanze bastano dunque a questo pedantuzzo, mariuolo di Febo e delle Muse, per asserire che la poe. sia del Montrone sembra fatta sul modello delle cantiche del B. Jacopone, e delle ferventesi del Cavalca, e dello stile di D. Fiden. zio? Non è egli questo un rigore più che Fidenziano? Oh! se io avessi la fortuna di conoscere questa talpa sotterranea che presume di notare le macchie nel sole, le direi francamente con l'Autor del Malmantile: Sì, talpa mia bella

a Chi suona il ribecchin chi colascione,

e poscia aggiungerei :

«Ma il robusto Montron pulsa la cetra.

Che se poi quell' J posto alla latina offende il dilicatissimo timpano delle sue sensitive auricole, e' pare dalla sua scrittura che le sue labbra non sieno di quelle

« Misere labbra che temprar non sanno

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"Con le galliche grazie il sermon nostro:

Si che men aspro a' dilicati spirti

« E men barbaro suon fieda gli orecchi.

(1) Il sig. di Montrone avrebbe scritto in quel caso Policrastes, perchè avrebbe

saputo la vera terminazione greca di questo nome.

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