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imitato il costume di quelle età, (nelle quali i pastori al governo pubblico ed al sacerdozio ascendeano) non avea da conservar la semplicità, e nè meno la rozzezza de' pastori ignobili. Che diremo per altro di quella affettata e puerile invenzione dell' Ecco troppo liberamente da lui usata, e da Antonio Ongaro nel suo Alceo favola marittima ? la quale per altro conserva gran parte della convenevole semplicità. Ma niuno meglio, che 'l Cortese nella Napolitana Rosa, e'l Buonarroti nella Tancia ha saputo rappresentare i caratteri contadineschi, e rendere al vivo i costumi e le passioni di simil gente nell' orditura d' un dramma.

Delle Satire. XXIII. Colla commedia, come si è detto altrove, confina la satira, la quale di quella è figlia. In questo genere, nientemeno che nell' epico e nel comico, è l' Ariosto eccellente, come più vicino ad Orazio, il quale ha saputo nelle satire più che gli altri Latini conservar la figura della commedia. Onde chi potrebbe mai abbastanza il talento e destrezza dell' Ariosto ammirare, il quale ha saputo dar moto insieme e compimento a tre simili generi di poesia? e per non uscir dal luogo nel quale siamo delle satire; quanta utilità di moral filosofia, quanta sperienza di negozj umani, quanta copia di favoluzze piacevoli insieme, e delle nostre azioni regolatrici; quanto scherno de' vizj, e ridicola

imitazione emendatrice di quelli ha saputo per entro con tanto senno spargere e compartire? qual' altra naturalezza e venustà di stile in nostra lingua si può comparare al suo, che scorre per tutto di singolar grazia e piacevolezza? Chi non compatirebbe i nostri presenti nazionali, la maggior parte de' quali conosce sì poco i doni di questo suolo, che dal falso splendore de' moderni e degli stranieri si lasciano sì ciecamente fuori del nido delle grazie trasportare? Degli altri satirici non parlo, perchè quantunque dotti utili e graziosi, pur non sono degni d' essere messi coll' Ariosto in compagnia.

Del Berni

XXIV. Merita ben grado nella poesia Italiana distinto il Berni, satirico anch' egli; che, se non fusse stato prevenuto dal Pulci, si potrebbe in nostra lingua chiamar di nuovo stile inventore, o pure introduttore del Plautino e del Catulliano; nel qual genere tra' nostri è tanto singolare per le grazie, scherzi, e motti sì naturali e proprj, che niuno può niegargli della poesia burlesca, e di quella, che gli antichi chiamavano mimica, la monarchia; sì per esserne tra noi stato il principal pomotore, sì per esser di tanti, che 'l seguitarono, rimasto sempre il maggiore.

Dello Stil

XXV. Il simile è avvenuto al FiFidenziano. denziano stile, il quale è come il circolo di se stesso, principio e fine; poichè gli altri, che han tentato imitarlo, senza la profonda cog

ma per

nizione e pratica del latino ed italiano idioma, necessaria per trasfondere col grazioso mescolamento delle parole il genio latino nell' italiano, sono insipidi assai e freddi riusciti. Quando che Fidenzio, non solo per sì maraviglioso innesto, il costume che sì vivo rappresenta, e per le passioni, che al suon della Petrarchesca lira con pedantesco superciglio sì vivamente esprime, e per l'applicazione sì propria de' termini grammaticali, ha prodotto un genere di ridicolo nuovo e singolare, di cui a niun' altra lingua è comune la gloria.

Della Lirica. XXVI. Rimane or a discorrer della lirica, la quale, benchè sembri lunga e malagevole impresa per la moltitudine degli autori, e la varietà degli stili, che nati si credono nella nostra favella; per noi, i quali alla perfetta idea ed alla somma ragione guidar vogliamo i nostri lettori, e che perciò solo ci proponiamo i principali, e que' che sono degni d' esser posti a fronte, o in compagnia, de' Greci e Latini nel primo discorso considerati; maggior cura e maggior tempo nell' esame di un solo, che nella menzione di molti consumeremo. Imperocchè due stili corrono nella nostra lingua, uno antico di cui è capo il Petrarca, al quale i migliori tanto rassomigliano, che quanto di lui si dice, a tutti secondo il loro grado conviene. Onde poco a dir di loro ci resta, dappoichè del Petrarca

ragionato avremo. L'altro chiamasi novello, e con ragione, perchè ha la novità in nostra lingua dalla barbarie de' concetti e delle parole : come quello che da ogni miglior Greco e Lati. no, al pari che dal Petrarca, si allontana. E pure quantunque i suoi inventori non sono più simili a' Greci e Latini che la scimia all' uomo ; nulladimeno danno alle odi loro nome di Pindariche, perchè gonfie di vento a guisa di vesciche s' alzano in aria; o pur d' Anacreontiche, quando in versi corti raccolgono fanciullesche invenzioni. Anzi anche si danno ad intendere d' essere autori di ditirambi, perchè sanno infilzare più parole in una contro il genio della favella sì latina come volgare, e perchè sanno scherzare col bicchiere. Onde lasceremo questi dentro l' obblio de' saggi, ed in mezzo l' applauso degli stolti; e le più pure e vive idee della nostra lirica dal decimoquarto, decimoquinto, e decimosesto secolo raccoglieremo; posti da parte que' del secolo decimoterzo, a' quali conviene quel che di Livio Andronico Ennio dicea,

Versibus, quos olim Faunei vatesque canebant.

Del

XXVII. Ed entrando nel decimo

Petrarca. quarto ragioneremo principalmente del Petrarca ristoratore della lingua latina, e padre della lirica Italiana nella quale, secondo la facoltà del nostro idioma, le greche e le latine virtù dal loro centro adducendo, seppe la gravi

tà delle canzoni di Dante, l' acume di Guido Cavalcanti, la gentilezza di Cino, e le virtù d' ogn' altro superare, così nell' età sua, come nelle seguenti, nelle quali tra tanti a lui simili non è mai sorto l' uguale. Abbracciò egli nel suo Canzoniere quasi le più principali parti della lirica, poichè i suoi sonetti e sestine (non solo in morte della sua donna, ove sì dolcemente si lagna del rio destino, ma in vita ancora, ove passioni sì di speranza come di timore, sì di desiderio come di disperazione, racchiude) che sono altro, se non che elegie, ad imitazione di Tibullo, Properzio, ed Ovvidio, benchè brevi e corte? E se lunghe le vogliamo ed intere, l'incontreremo prontamente nella canzone della trasformazione, che incomincia, Nel dolce tempo della prima etade;

ovvero in quella,

Si è debile il filo, a cui s' attiene;

o pur in quella,

Di pensier in pensier, di monte in monte;

ed in altre simili da miserabili e dolenti note, particolarmente nella seconda parte sulla morte Se Catulliano ed Anacre

di Laura composte.

cntico stile vorremo, avanti ci verranno le due

semplicissime e gentilissime sorelle,

Chiare, fresche, e dolci acque ;

Se 'l pensier che mi strugge ;

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