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e morso dal dente della coscienza del mal' operato, eccitarono l'immagini delle Furie vestite d'orrore e di spavento: acciocchè fossero rispinte fuori. delle menti volgari colle figure della face e dei serpi quelle passioni, che son fugate dalla filosofia a forza di vive ragioni, che sono gli strumenti onde son rette e governate le menti pure. Per lo che, sotto l'immagine d' Aletto, di Tesifone, e di Megera, svelarono al volgo per la strada degli occhi la natura dell' inquietudine, della vendetta, e dell' odio, ed invidia, ravvisata da' filosofi sotto la scorta dell' intelletto. A forza del medesimo incanto, palesarono al popolo l'indole dell' avarizia, colorita sulla persona di Tantalo sitibondo, col mento sull' acque che da lui s' allontanavano quando inchinava la bocca, e con gli occhi e le mani intese e rivolte ad una pioggia di pere, fichi, ed altri frutti che cadean sopra di lui ed eran dal vento portati via tosto che egli avidamente stringeva il pugno, per mostrare che l' avaro non raccoglie mai delle sue ricchezze il frutto, il quale è il contento, dal qual cibo egli è sempre digiuno: poichè tal vizio, mentre accresce il desiderio colla preda, nutrisce di continuo il bisogno, e riduce l'uomo in maggior povertà perchè la ricchezza non è composta dalla roba che s' accresce, ma dal desiderio che si Tai sentimenti per mezzo di queste immagini i poeti insinuarono ne i petti rozzi, rap

scema.

presentando col medesimo artificio la natura degli altri vizj, come dell' ambizione, dell'amore, della superbia, per mezzo d' Issione, di Tizio, di Sisifo; e convertendo in figura sensibile le contemplazioni de' filosofi sulla natura de' nostri affetti. Con la medesima arte, per mezzo della quale sgombrarono i vizj, eccitarono anche ne' popoli l'idee della virtù, ed avvolsero la mente loro entro la luce dell' onesto: il quale perchè è inseparabile dalla cognizione di Dio, perciò trasfusero negli animi i sensi della loro religione per gli stessi condotti, e per via delle favole, ovvero immagini esprimenti Je contemplazioni dell' eterno in figura visibile, e in disposizione corrispondente a i caratteri dell' animo umano, ed al corso delle nostre azioni. Origine dell' VIII. E perchè l' antica sapienza Idolatria. cavava da una stessa miniera tanto quel ch'è seme delle sensazioni, quanto quel che percotendo in varie maniere i nostri organi genera diversità d'oggetti e di sembianze; e tutte le cose create da' gentili teologi si riputavano affezioni e modi di Dio; perciò fu propagata una larga schiera di numi, sotto l'immagini de' quali furono anche espresse le cagioni e i moti intrinsechi della natura. Per lo che gli antichi poeti con un medesimo colore esprimevano sentimenti teologici, fisici, e morali: colle quali scienze comprese in un solo corpo vestito di maniere popolari allargavano il campo ad alti e profondi

misterj. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgare opinione velato de' nostri affetti, e travestito all' uso mortale. Quindi anche avvenne, che l'unità dell' esser suo fu favolosamente diramata nelle persone di più falsi numi, che a parer loro esprimevano varj attributi divini sotto l'ombra di passioni e sembianze mortali, 'ch' erano i canali per mezzo de' quali a loro credere Dio communicava con le menti umane, e si svelava a misura del lume che in esse riluceva: onde a' saggi compariva uno ed infinito; al volgo sembrava moltiplice e circonscritto. Per lo che i padri antichi volendo distrarre i gentili dal culto superstizioso e falso non solo adoperavano il vigor della luce evangelica, ma eccitavano ancora alcune autorità de' primi architetti dell' idolatria, e sviluppando i nodi delle favole, facevano apparire qualche principio della Cristiana Fede, sulla medesima tela de' filosofi ed antichi poeti, i quali con la condotta della natura pervennero alla cognizione dell' esistenza, unità, ed immensità divina al qual lume al parer di San Tommaso ci possono servir di grado le potenze della mente e le facoltà della ragione scorta e guidata da scientifica norma. Onde così Giustino martire, come Lattanzio, ed altri antichi Padri, nel tempo che oppugnavano l' idolatria, con acuta e sensata interpretrazione tiravano su questo medesimo punto le sentenze tanto de' primi

poeti, quanto ancora de' filosofi più gravi, come d'Anassagora, Talete e Pittagora, Zenone, Timeo, Platone ed altri, che l'unità della divina natura chiusero in varie cifre, per velarsi agli occhi del volgo che immerso ne' simboli confondea la vera sostanza con gli attributi: come anche in più luoghi Cicerone e Seneca avvertono, e si raccoglie dalla lettera scritta a Sant'Agostino da Massimino Gentile, ove ei dice che essi esprimevano e adoravano le virtù di Dio, sparse per l' universo, sotto varj vocaboli, per essere il di lui vero nome a loro ignoto. Queste immagini e favole create per forza della poetica invenzione, o che si rappresentassero colle parole, o che si delineassero co i colori, o che s'incidessero sui marmi, o che s'esprimessero con gesti ed azioni mute, riconoscono sempre per madre e nudrice la poesia, che transfonde lo spirito suo per varj strumenti, e cangiando strumenti non cangia natura; poichè tanto con le parole, quanto co' marmi intagliati, quanto co' colori, quanto con gesti muti, si veste la sentenza d'abito sensibile, in modo che corrisponda all'occulte cagioni collo spirito interno, ed all' apparenza corporea colle membra esteriori. Discese tal mestiero dagli antichi Egizj primi autori delle favole, i quali rappresentavano gli attributi divini sotto sembianze d' uomini, di bruti, ed anche di cose inanimate sulle quali l'occhio de' saggi ravvisava o scienza delle cose divine e

naturali, o morali insegnamenti: all' incontro il volgo bevea da quelle apparenze un sonnifero di crassa superstizione, sotto la cui tutela viveano le leggi di quell' imperio. Non si contenne nell' Egitto tal' istituto, ma ne trascorsero larghi rivi in Grecia, dalla quale furono altrove in ampie vene propagati. Imperocchè molti rampolli dell' Egitto furono traspiantati in Grecia per mezzo delle colonie, delle quali una si crede, che fosse Atene, ove regnò Cecrope, uomo Egizio, che avendo innestati i costumi dell' Egitto a quei de' Greci, si disse esser di due nature, cioè di serpente e d'uomo. Questi introdusse in Grecia il culto di Minerva, da' Greci detta Atene, da cui la città dov' egli regnò trasse il suo nome. L'altra colonia fu Tebe fondata da Cadmo, il quale era Egizio, ma perchè giunse con navi Fenicie, per Fenicio fu riputato, secondo il parere però di pochi autori. Da questo scambio dicon poi esser sorta la comune opinione, che le lettere fossero a noi venute dalla Fenicia: quando che Erodoto ed altri scrittori stimavano essersi ricevute dall' Egitto, dove per opera di Mercurio furono inventate. Cadmo portò seco i misterj ed il culto di Bacco e, se ben mi sovviene, anche di Nettuno. Danao fu l'altro, che in Grecia fondasse colonie. Questi fuggì dall' Egitto colle sue figlie, e si crede che fosse il primo che fabbricasse nave per aver lo strumento della sua fuga. Le

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