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slesso nella Vita Nuova, quel corredo di scienza, che non s'acquista se non cogli anni, e con istudi continuati e severi. Le parole poi di Dante, acciocchè non fossi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentale, parmi che tutt' altro suonino che modestia e temenza propria di scrittor giovanile, e nella repubblica letteraria novello.

Comunque sia, a me par molto improbabile, che innanzi il 1300, quando Dante, conforme dice egli stesso, era guelfo, quando per accomunarsi col popolo si faceva ascrivere all'arte degli Speziali, quando ambiva e si procacciava gli officii civili della sua patria, guelfa siffatta, che Farinata esclamava (Inf. X, 83):

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Incontro a' miei in ciascuna sua legge? »

egli impiegasse la sua penna in iscrivere un'opera, che molto più che l'avere avversato la venuta di Carlo di Valois, gli avrebbe procurato le ire de' suoi concittadini. Nò: Dante non può aver rivolto le sue speculazioni politico-filosofiche alla scienza sociale se non dopo aver passato una parte della sua vita in mezzo ai torbidi della sua patria ed alle contese delle fazioni. « Nella storia delle scienze sociali (dice il Carmignani nella sua bella Dissertazione sulla Monarchia) è incontrovertibile il fatto, che le teorie politiche nacquero sempre in circostanze, le quali spinsero l' ingegno umano ad indagare per qual modo i diritti o dell'individuo o della società possano mettersi in salvo da una forza che minacci d'annichilarli e distruggerli.» Ammettendo anco che Dante nella sua gioventù, quando pure andava a Campaldino a combattere i Ghibellini, ravvolgesse nella mente i principii della fazione imperiale, e verso quelli si sentisse inclinato, non parmi possibile ch' ei potesse allora professarli apertamente, e tanto meno scrivere un libro, in cui fino all' entusiasmo, come dice lo stesso Witte, riducendo que' principii a sistema di social convivenza, rovesciasse i fondamenti delle forme politiche della sua patria. «È credibile e verosimile (dice il Carmignani) che Dante, dichiaratosi contrario all' intervento di straniero potere nelle cose

pubbliche del suo paese, già senza questo intervento felice e tranquillo, attribuisse le commozioni che lo agitarono al parteggiare de' suoi concittadini per i due grandi poteri rivali, che sotto specie di protezione aspiravano a farsene arbitri e dominatori. Era questa dualità che l' Alighieri voleva escludere; e reputando inevitabile e necessaria la forza d' uno de' due poteri a comprimere le rivalità tra paese e paese, allora vivissime e micidiali, egli in questa veduta dichiaravasi per la Monarchia universale. »

Deferente inverso le opinioni altrui, e pronto a ricredermi delle proprie ove mi se ne mostri l'erroneità, io credo frattanto che la Monarchia sia stata scritta da Dante anteriormente al Volgar Eloquio, al Convito e alla Commedia, ma non già innanzi il suo esilio.

Fiorentino

SOPRA LA MONARCHIA DI DANTE,

TRADOTTA DA LUI DI LATINO IN LINGUA TOSCANA,

A BERNARDO DEL NERO ED ANTONIO DI TUCCIO MANETTI, Cittadini Fiorentini.

Dante Alighieri per patria celeste, per abitazione fiorentino, di stirpe angelico, in professione filosofo-poetico, benchè non parlasse in lingua greca con quello sacro padre de' filosofi, interpetre della verità, Platone, nientedimeno in spirito parlò in modo con lui, che di molte sentenzie platoniche adornò i libri suoi; e per tale ornamento massime illustrò tanto la città fiorentina, che così bene Firenze di Dante, come Dante di Firenze si può dire. Tre regni troviamo scritti dal nostro rettissimo duce Platone: uno de' beati, l'altro de' miseri, e il terzo de' peregrini. Beati chiama quelli che sono nella città di vita restituiti; miseri quelli che per sempre ne sono privati; peregrini quelli che fuori di detta città sono, ma non giudicati in sempiterno esilio. In questo terzo ordine pone tutti i viventi, e de' morti quella parte che a temporale purgazione è deputata. Questo ordine platonico prima seguì Virgilio; questo seguì Dante dipoi, col vaso di Virgilio beendo alle platoniche fonti. E però del regno de' beati, de' miseri e de' peregrini, di questa vita passati, nella sua Comedia elegantemente trattò. E del regno de' peregrini viventi nel libro da lui chiamato Monarchia; ove prima disputa dovere essere uno giusto imperadore di tutti gli uomini; di poi aggiunge questo appartenersi al popolo romano; ultimo pruova che detto imperio dal sommo Iddio sanza mezzo del papa dipende. Questo libro composto da Dante in lingua latina, acciò che sia a' più de leggenti comune Marsilio vostro, dilettissimi miei, da voi esortato, di lingua latina in toscana tradotto a voi dirige, poichè l'antica nostra amicizia e disputazione di simili cose intra noi frequentata richiede, che prima a voi questa traduzione comunichi, e voi agli altri di poi, se vi pare, ne facciate parte.

DE MONARCHIA

LIBER PRIMUS.

De necessitate Monarchiæ.

§ I. Omnium hominum, quos ad amorem veritatis natura superior impressit, hoc maxime interesse videtur, ut quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi pro posteris laborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. Longe namque ab officio se esse non dubitet, qui publicis documentis imbutus, ad Rempublicam 1 aliquid adferre non curat: non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo sed potius perniciosa vorago, semper ingurgitans, et nunquam ingurgitata refundens. Hæc igitur sæpe mecum recogitans, ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar, publicæ utilitati non modo turgescere, quin imo fructificare desidero, et intentatas ab aliis ostendere veritates. Nam quem fructum ferat ille, qui theorema quoddam Euclidis iterum demonstraret? qui ab Aristotele felicitatem ostensam, reostendere conaretur? qui senectutem a Cicerone defensam, resumeret defensandam? Nullum quippe, sed fastidium potius illa superfluitas tædiosa præstaret. Cumque inter alias veritates occultas et utiles, temporalis Monarchiæ notitia utilissima sit, et maxime latens, et propter non se habere immediate ad lucrum ab omnibus intentata ; 2 in proposito

1 Qui, ed anco altrove, la voce Repubblica non indica una forma speciale di governo, ma la cosa pubblica, lo Stato. Infatti gl' Imperatori romani, e fin Giustiniano,

chiamaron sempre Repubblica lo stato sul quale dominarono.

È una tirata contro i giureconsulti e decretalisti, dei quali parla aspramente in appresso.

LA MONARCHIA

LIBRO PRIMO.

Della necessità della Monarchia.

§ I. Il principale officio di tutti gli uomini, i quali dalla natura superiore sono tirati ad amare la verità, pare che sia questo che come eglino sono arricchiti per la fatica degli antichi, cosi s' affatichino di dare delle medesime ricchezze a quelli che dopo loro verranno. Per che molto di lungi è dall' officio dell'uomo colui che, ammaestrato di pubbliche dottrine, non si cura di quelle alcuno frutto alla Repubblica conferire. Costui non è legno, il quale piantato presso al corso dell' acque, nel debito tempo frutti produce; ma è più tosto pestilenziale voragine, la quale sempre inghiottisce, e mai non rende. Pensando io questo spesse volte, acciò che mai non fussi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentate. Imperocchè nessuno frutto produrrebbe colui, che di nuovo dimostrasse una proposizione da Euclide dimostrata; e colui che si sforzasse di dichiarare la felicità da Aristotele già dichiarata; e colui che volesse difendere la vecchiaia già difesa da Cicerone. Il sermone di costui superfluo, più tosto partorirebbe fastidio che frutto alcuno. E come tra l'altre verità occulte e utili, la notizia della temporale Monarchia è utilissima e molto nascosa e non mai da alcuno tentata, non vi si vedendo dentro guadagno; però il proposito mio è di trarre

DANTE.

2.

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