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di lor natura preordinati a manifestarlo), possono nascere i medesimi effetti che nascerebbero, se lo stesso intendimento fosse stato dichiarato. E, secondo i casi, la prova della difforme volontà viene o no concessa. Ma qui pure il diritto nulla presume. Il diritto non fa che constatare il significato che hanno certi modi di agire nella comunità da esso retta, non pretende d'indovinare l'animo dello agente. Con tali principî si spiegano le norme regolanti in certi casi gli effetti del silenzio e altre regole, p. e. che il creditore, restituendo il chirografo, s'intende rimettere il credito; che, accettando il pagamento di future rate d'interessi, s'intende accordare una dilazione al pagamento del capitale; che chi compra scientemente fondi ereditarî dall'erede testamentario s'intende riconoscere il testamento e così via. Solo di passaggio avvertiremo, che a torto si citano qui alcuni testi, in cui non si interpreta già un fatto secondo il suo comune e ragionevole significato, ma si rileva l'unico possibile significato del fatto stesso. P. e. i testi vedono nel fatto del venditore, che post diem commissoriae legi praestitutum domanda il prezzo, una rinunzia alla lex commissoria stessa; e per vero chiedere l'esecuzione del contratto dopo un tal termine non vuol dire nè più nè meno che rinunziare al patto commissorio; chiedere l'esecuzione è rinunziare allo scioglimento. Così in Cod. 7, 52, 5 si legge "dilationem petentem acquie visse sententiae manifeste probatur e per vero domandare una dilazione a eseguire vuol dire accettare l'obbligo di eseguire', riconoscere la sentenza. Non è un fatto, d'onde s'arguisca un altro: è il fatto stesso.

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18. Una particolare considerazione merita la così detta adenzione tacita dei legati. La frase "ademptio legati, va intesa con qualche discrezione, poichè non si adime in senso vero quanto non costituisce che un'aspettativa, non essendo fino alla morte del de cuius nè perfetto il negozio nè quesito il diritto. Il legato (fedecommesso) è atto di ultima volontà e come tale presupporrebbe perdurante fino alla morte la volontà stessa, che lo ha dettato. Se questa volontà vien meno,

1 RANELLETTI, Il silenzio negli atti giuridici [Rivista ital. per le sc. giurid., vol. XII, fasc. 4-5].

il fedecommesso cade senz'altro con essa; il legato (poiché qui a rigore, trattandosi di negozio formale, occorre per distruggere la volontà iniziale una determinata manifestazione della contraria) diventa oppugnabile mercè l'exceptio doli. Ora vi hanno dei fatti, che, almeno nel comune modo di vedere, si ritengono incompatibili colla perdurante volontà di lasciare al legatario il determinato beneficio e su tali fatti ben può fondarsi l'exceptio doli. - Uno di tali fatti è l'alienazione che il testatore, nulla necessitate urguente, operi dell'obbietto legato. E infatti difficilmente si scorge, com'essa possa conciliarsi colla volontà di tener fermo il legato. La "species, legata passa colla scienza e per volontà del testatore in pienissima balia di un terzo, che la può distruggere, trasformare, dividere: che può non volerla più rendere. L'ottenere la species pel legatario non dipende ormai più dalla volontà del testatore, ma dalla disposizione d'animo dell'acquirente. Per suo conto il testatore impedisce al legatario di aver la cosa; ora tale impedimento è compatibile colla iniziale disposizione? Nè si obbietti essere valido il legato di cosa altrui scientemente fatto dal testatore; poichè qui il testatore vuole che l'erede rimuova gli ostacoli all'acquisto da parte del legatario; là invece niun ostacolo esisteva e il testatore. lo pone scientemente e liberamente. Se quindi viene stabilito che la spontanea alienazione da parte del testatore autorizzi a rifiutare l'adempimento del legato (salva la prova che tuttavia non venne meno la volontà del testatore di conferire il beneficio al legatario), nulla troveremo, che non sia conforme alle cose fin qui ragionate. - E poichè già ci avvenne di respingere un inopportuno confronto col legatum rei alienae, non sarà fuor di luogo una breve osservazione sul trattamento giuridico di questo, che a torto si ritiene molto affine a quello testè dichiarato. Il legatum rei alienae non suole avere efficacia, se non quando si provi che il testatore conosceva l'alienità della cosa; la prova spetta al legatario, Si cerca la ragione di questa dottrina in una presunzione: il testatore non avrebbe legata la cosa sapendola altrui, o "si presume cho non si leghino cose altrui. Ma la dottrina si spiega con più semplici riflessi. Il legatum rei alienae è di una catego

ria diversa dal legatum rei propriae, cui si raunoda il legatum rei heredis. Nelle due ultime ipotesi si crea l'obbligo di dare la cosa; nella prima l'obbligo di acquistare la cosa per darla. Tale obbligo era in origine illimitato; l'onerato non poteva sfuggire alla litiscrescenza, che consegnando la cosa; più tardi si ammise esser per lui valida scusa l'esorbitante pretesa del proprietario, non però qualsiasi pretesa eccedente il prezzo ordinario. Tali erano le condizioni del legatum per damnationem, in cui primamente si svolse la teorica del legato di cosa altrui e per cui primamente la nostra regola fu proposta. La differenza tra il trattamento del legato "heres meus fundum cornelianum damnas esto dare, e quello della stipulazione "fundum cornelianum dare spondes?, si spiega pensando che per la stipulatio mancava la litiscrescenza e che qui operava l'elemento della responsabilità contrattuale. - Dato dunque quel concetto del legatum rei alienae, è chiaro che il legatario doveva provare che il testatore aveva imposto all'erede l'obbligo di acquistare la cosa; obbligo cui solo in dati casi potevasi sfuggire col pagamento della aestimatio. A tal uopo non bastava provare il legato; occorreva provare la scienza dell'alienità della cosa. E infatti i giuristi romani non vedono qui nessuna derivazione dalle norme ordinarie reggenti la prova, quia semper necessitas probandi incumbit illi qui agit. La cosa non era fuori di controversia; ma non per ragioni di presunzione, bensì perchè anche dove questa manca, probationes quaedam a reo exiguntur e qui appunto si poteva discutere. Giustamente però prevalse la prima opinione: legare una cosa non è ancora obbligare all'acquisto; occorre o l'esplicito precetto di acquistare o il legato colla scienza dell'alienità cfr. Marciano fr. 21 D. 22, 3 [I. 2, 20, 4] e Papiniano fr. 67 § 8 de leg. II.

19. Diverso dall'alienatio rei legatae è il caso delle gravissimae e capitales inimicitiae scoppiate fra testatore e legatario, in seguito alle quali s'intende venuto meno il legato. Il legato è essenzialmente (in diritto romano) atto di onore e di benevolenza: questi sentimenti sono incompatibili coll'edio e col rancore. I testi pertanto che insegnano adimersi tacitamente il lascito per le gravissimae inimicitiae, non statuiscono

veruna presunzione; constatano solo un principio giuridico indiscusso, che cioè il legato per essere efficace deve essere dettato da uno spirito di benevolenza, che duri fino alla morte del disponente. Già meno chiaro è il caso del divorzio. Si suole insegnare, che i più antichi fra' classici (Proculo, in D. 34, 2, 3 e 32, 49 § 6) ammettevano in modo assoluto, che separatio dissolvit legatum; mentre i più moderni non accettavano il principio che in date condizioni. Ma credo tale dottrina erronea. Il divorzio per sè non implica che sieno venuti meno i rapporti di benevolenza fra' coniugi; basterebbe ricordare la notissima laudatio di Turia. Il pensiero di Proculo è infatti ben diverso. Egli parla non del legato in genere, ma del tipo speciale "legatum rerum uxoris causa emptarum paratarum,,'. In tal legato suolsi comprendere quanto fu dal testatore, durante la sua vita, assegnato in uso alla moglie o acquistato per uso di lei, senza che mai le sia stato dal marito stesso ritolto. [cf. D. 32, 48]. E conseguentemente Proculo esige "ut legatum valeat, mortis tempore uxorem esse debere, non perchè il divorzio implichi mutamento di volontà; ma perchè cessa una delle condizioni obbiettive di questo tipo specifico di legato, che presuppone la perduranza dell' usus rerum e quindi del conjugio. Celso stima però che nonostante il divorzio, può perdurare l'usus rerum concesso dal marito, nel qual caso starebbe il legato e insomma tutto si riduce, come egli bene avvisa, ad una quaestio facti. E a questo proposito avvertirò, come l'esegesi del fr. 3 D. 34, 2 sia ordinariamente erronea, perchè le parole adimere, ademptio vengono riferite alla "revoca del legato „. Ma Celso non dice legatum videri ademptum, ; ma น quae uxoris causa parata sunt adempta videntur Ora, come risulta chiarissimo dal fr. 48 D. de leg. III, adimere res uxoris c. e. p. vuol dire semplicemente togliere tali cose alla loro primitiva destinazione „: adimere qui non si contrappone a legare, relinquere : ma a parare, tradere. Donde si vede che la differenza di opinione fra Proculo e Celso concerne i requisiti obbiettivi di questo legato; di presunzioni di volontà non si fa parola.

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20. Lasciamo ora il difficile e non sempre profondamente esplorato campo dei negozî giuridici e veniamo ad altri casi, in cui i moderni trovano "presunzioni legali,, nei giuristi classici. 11 matrimonio è un istituto in primo luogo etico e solo subordinatamente giuridico; il diritto deve sempre rispettare l'intrinseca moralità del coniugio e allontanare quanto può lederne la purezza. Il diritto qui non è perfettamente libero nell'azione sua; questa deve sempre piegarsi all'esigenze etiche del vincolo coniugale. Sovratutto sono contrarie alla riverenza dovuta a questo le indagini indiscrete circa la paternità dei nati dalla madre; indagini, che per altro risponderebbero al comune trattamento della prova. Il diritto romano classico ammette che i figli nati nel matrimonio appartengano al marito e siano frutti legittimi del coniugio, ovunque ciò sia possibile; quando cioè dal principio del matrimonio alla nascita sia trascorso almeno il periodo minimo assegnato dei medici alla gestazione: e quando dallo scioglimento del matrimonio o dal sopraggiunto assoluto impedimento alla nascita sia al più trascorso il periodo massimo dai medici assegnato. Nel diritto più antico anche questi limiti non erano fissati (benchè nelle XII tavole si parlasse, non sappiamo a che proposito, dei decem menses della gestazione); abbiamo memoria di figli ritenuti legittimi nonostante che dallo scioglimento del matrimonio fosse passato ben più che il massimo periodo ippocratico; nei Digesti (Ulp., D. 1, 6, 6) è tuttora vivo il ricordo di un tempo, in cui non si consideravano gli impedimenti del marito.

Insomma qui l'honor matrimonii ha in più di un punto derogato ai criterî ordinarî: "non ferendum Iulianus ait eum, qui cum uxore sua adsidue moratus nolit filium adgnoscere quasi non suum. „ Affatto analoga è la così detta praesumptio muciana. [Pomp. 5 ad Q. M.]: "cum in controversiam venit, un de ad mulierem quid pervenerit, et verius et honestius est quod non demonstratur unde habeat, existimari a viro aut qui in potestate eius esset ad eam pervenisse: evitandi autem turpis quaestus [quaestionis] gratia circa uxorem hoc videtur Quintus Mucius probasse. „ Nel modo stesso, che "in honorem matrimonii turpis actio [furti] adversus uxorem negatur, (D. 25,

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