Gran germoglio di Teucro, e chi sì crudo Fu mai, chi tanto osò, cui si permise Che facesse di te strazio sì fiero? La notte che seguì l'orribil caso De la nostra ruina, io di te seppi
Che assaliti i nemici, e di lor fatta Strage, che memorabile fia sempre, Tra le caterve de' lor corpi estinti,
Stanco via più che vinto, al fin cadesti; Ed allor io di Reto in su la riva
A l'ombra tua con le mie mani un voto Sepolcro eressi, e te gridai tre volte; E'l nome e l'armi tue riserba ancora Il loco stesso. Io te, dolce signore, Nè veder, nè coprir di patria terra Avanti al mio partir mai non potei. Deifobo rispose: Ogni pietoso
Deiphobe armipotens, genus alto a sanguine Teucri, Quis tam crudeles optavit sumere poenas? Cui tantum de te licuit? Mihi fama suprema Nocte tulit, fessum vasta te caede Pelasgúm Procubuisse super confusae stragis acervum. Tunc egomet tumultum rhoetheo in litore inanem 505 Constitui, et magna manes ter voce vocavi. Nomen et arma locum servant: te, amice, nequivi Conspicere, et patria decedens ponere terra. Ad quae Priamides: Nihil o tibi, amice, relictum: Omnia Deiphobo solvisti, et funeris umbris.
Ogni onorato officio, Enea mio caro,
Ha l'amor tuo ver me compito a pieno. Ma l'empio fato mio, l'empia e malvagia Argiva Donna a tal m'ha qui condotto;
E tal di se lasciò memoria al mondo.
Ben ti ricorda (e ricordar ten dei) Di quell'ultima notte che sì lieta
Mostrossi in pria, poi ne si volse in pianto, Quando il fatal Cavallo il salto fece
Sopra le nostre mura, e'l ventre pieno
D'armate schiere ne votò fin dentro A l'alta rôcca. Allora ella di Bacco Fingendo il coro, e con le frigie donne Scorrendo in tresca, una gran face in mano Si prese, e diè con essa il cenno a' Greci. 775 Io dentro alla mia camera (infelice!)
Mi ritrovai sol quella notte; e stanco
Sed me fata mea, et scelus exitiale Lacaenae His mersere malis: illa haec monumenta reliquit. Namque, ut supremam falsa inter gaudia noctem Egerimus, nosti; et nimium meminisse necesse est: Quum fatalis equus saltu super ardua venit 515 Pergama, et armatum peditem gravis attulit alvo: Illa, chorum simulans, evantes orgia circum Ducebat Phrygias: flammam media ipsa tenebat Ingentem, et summa Danaos ex arce vocabat. Tum me, confectum curis somnoque gravatum, 520 Infelix habuit thalamus, pressitque iacentem
Di tante che n' avea con tanti affanni Vegghiate avanti, un tal prendea riposo Che a morte più che a sonno era simíle. Fece la buona moglie ogni arme intanto Sgombrar di casa, e la mia fida spada Mi sottrasse dal capo. Indi la porta Aperse, e Menelao dentro v accolse, Così sperando un prezioso dono Fare al marito, e de' suoi falli antichi Riportar venia. Che più dico? Basta Ch'entrar là 'v' io dormia; e con essi era Per consultore Ulisse. O Dii, se giusto È'l priego mio, ricompensate voi
Di quest' opere i Greci. E tu che vivo
Se' qui, dimmi, a rincontro, il caso o 'l fato
O l'errore o 'l precetto de gli Dei,
O qual altra fortuna t'ha condotto,
Dulcis et alta quies, placidaeque simillima morti. Egregia interca coniux arma omnia tectis Emovet, et fidum capiti subduxerat ensem: Intra tecta vocat Menelaum, et limina pandit. 525 Scilicet id magnum sperans fore munus amanti, Et famam exstingui veterum sic posse malorum. Quid moror? irrumpunt thalamo: comes additus una Hortator scelerum Æolides. Dí, talia Graiis Instaurate, pio si poenas ore reposco. Sed te qui vivum casus, age fare vicissim, Attulerint. Pelagine venis erroribus actus,
Ove il Sol mai non entra, e buio è sempre. 795
Così tra lor parlando e rispondendo,
Avea già 'l Sol del suo cerchio diurno Varcato il mezzo, e l'avria forse intero; Se non che la Sibilla rampognando Così li fe' del breve tempo accɔrti : Enea, già notte fassi, e noi piangendo Consumiam l'ore. Ecco siam giunti al loco, Dove la strada in due sentier si parte. Questo a man dritta a la città ne porta Del gran Plutone, e quindi a i campi Elisi; 805 Quest'altro a la sinistra a l'empio Abisso Ne guida, ov'hanno i rei supplizio eterno. Il figlio a ciò di Priamo soggiunse:
Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
An monitu Divim? an quae te fortuna fatigat, Ut tristes sine sole domos, loca turbida, adires? Hac vice sermonum roseis aurora quadrigis Iam medium aetherio cursu traiecerat axem;
Et fors omne datum traherent per talia tempus: Sed comes admonuit, breviterque affata Sybilla est: Nox ruit, Enea; nos flendo ducimus horas.
Hic locus est, partes ubi se via findit in ambas: 540 Dextera, quae Ditis magni sub moenia tendit: Hac iter Elysium nobis: at laeva malorum Exercet poenas, et ad impia Tartara mittit. Deiphobus contra: Ne saevi, magna sacerdos: Discedam, explebo numerum, reddarque tenebris. Eneide Vol. I
Ch'or or da voi mi tolgo, e mi ritiro Ne le tenebre mie. Tu nostro onore Vatten felice, già che scorto sei Da miglior fato; e meglio te n'avvenga.
Tanto sol disse, e sparve. Enea si volse Prima a sinistra, e sotto un' alta rupe Vide un'ampia città che tre gironi Avea di mura, ed un di fiume intorno; Ed era il fiume il negro Flegetonte, Ch'al Tartaro con suono e con rapina L'onde seco traca, le fiamme e i sassi. Vede nel primo incontro una gran porta Ch'ha la soglia, i pilastri e le colonne D'un tal diamante, che le forze umane, Ne de gli stessi Dei, romper nol ponno. Quinci si spicca una gran torre in alto Tutta di ferro. A guardia de l'entrata La notte e 'l giorno vigilando assisa
I decus, i, nostrum; melioribus utere fatis. Tantum effatus, et in verbo vestigia torsit. Respicit Eneas subito, et sub rupe sinistra
Moenia lata videt, triplici circumdata muro; Quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis 550 Tartareus Phlegethon, torquetque sonantia saxa. Porta adversa ingens, solidoque adamante columnae, Vis ut nulla virum, non ipsi exscindere ferro Caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras: Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
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