E poichè udì che s'era già per via Volse e rivolse i suoi pensieri ardenti; Onde Ma la mia mente a rigettarlo avvezza Oggi non dee lasciar suo genio antico, Che l'ingiusta potenza abborre e sprezza. E ben degg❜io di libertade amico Meno la morte odiar di quella vita Che ricever dovrei dal mio nemico.i Tu vanne, o figlio, ove il destin t'invita Che ciò che all' opre tue sarà virtute, Sarebbe infamia per quest'alma ardita; La qual non dee, con dimandar salute, Di Cesare approvar l'ingiusta voglia Ch'altrui morte minaccia o servitute. Nè tanto apprezzo questa frale spoglia, Ch'abbia a legar per dimorare in lei, Quel libero desio che in me germoglia. Nè del nome Roman degno sarei, Se, giunto alfin di dieci lustri orinai, Non finissi costante i giorni miei. Io, che ho del viver mio già scorso assai, So ch'incontrar quaggiù l'uomo non puote Che interrotte dolcezze e lunghi guai. Mentre sciogliea la lingua in queste note Piangeva il figlio, e con afflitto volto Tenea nel genitor le luci immote. Ed egli intanto a un servo suo rivolto, E forte grida: Ah non recate ancora A tutti allor dagli occhi il pianto scorse, E, rimirando i mesti amici in viso, E volando nel ciel rapidamente, De' grandi eventi il varïato stame? Ah! che quell'alma cui ragione è duce, Non può giammai temer di quella morte Che al destinato fin la riconduce: Anzi ella sempre l'aspre sue ritorte Romper si sforza, in cui si trova oppressa, E sempre aspira alla celeste sorte. 3 Onde, quando la strada è a lei permessa D'uscirne fuori, alla sua sfera sale, Riducendosi pria tutta in se stessa. Nè teme di perir qual cosa frale, Nè può perir se non ha parte alcuna, Ma è pura, indivisibile e immortale. Si rompa or la dimora a me importuna: Arrecatemi, o servi, il ferro avante, Pria che parta dal ciel la notte bruna. Allora un servo con la man tremante Portògli il fiero acciaro, ed egli il prese Intrepido negli atti e nel sembiante. Ma Labien che di pietà si accese, Andiam prima di Giove al tempio, disse, Acciocchè il suo voler ti sia palese. Caton pria nel pugnal le luci fisse, E la punta tentò se fosse dura, Poi di sua bocca tal favella udisse: Forse colà nelle sacrate mura Chieder dovrem, se bene opri colui Che ad ingiusto poter l'anima fura? S'eterno sia ciò che si chiude in nui, E se contra la forza e la potenza Perda punto virtude i pregi sui ? Ciò ben sappiam che la divina Essenza, In cui tutti viviamo, a nostre menti Già del vero donò la conoscenza. Nè fia ch'opra giammai da noi si tenti, Se non ci muove quel volere eterno, Senza cui nulla siam di oprar possenti. E poi perchè degg' io Giove superno Negli aditi cercar, se il trovo espresso Ovunque mi rivolgo, ovunque scerno? A' dubbi il fato è d'esplorar permesso; Ma lo spirito mio certo diviene Per la certezza del morire istesso. Qui la voce Catone a sè ritiene, Perocchè il sonno del liquore di Lete Avea le luci sue tutte ripiene. E i mesti amici con le menti inquiete Piangendo usciro e il buon Caton lasciorno, Ch'entro s' immerse alla profonda quiete. Ma quando gli augelletti ai rami intorno, Mentre l'aurora il chiaro manto stende, Salutavan cantando il nuovo giorno, Ei desto, in man l'ingiusto ferro prende, Che spinto dalla destra a mezzo il petto Velocemente sino al ventre scende. Le viscere escon fuor del proprio letto, E fra le dita spumeggiando il sangue, copre di pallore il fiero aspetto. Si Mentre fra vita e morte incerto langue, Un servo accorre, che con arte spera Far che non resti per lo colpo esangue. Ma fisso ei nella voglia sua primiera Si volse in sè, poichè di ciò si avvide, Come in umile agnello irata fera; Ed il trafitto petto apre e divide Con forza tal, che quello dilatando L'aspra ferita, negli estremi stride. |