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naufragio, come tante volte avviene, ed è avvenuto nel secolo trapassato a più d' uno. Quando anche non venga fatto agl' ingegni valorosi di toccar la cima del Monte, altius tamen ibunt ( dirò con Quintiliano) qui ad summa nitentur, quam qui praesumta desperatione quò velint evadendi, pratinus circa ima substiterint. E ciò che dico dell' arricchire il Parnaso d'Italia coll' invenzione di nuovi suggetti e poemi, si dee stendere parimente allo stile. Nella lirica è ottimo quello del Petrarca, e come tale da noi si venera, ma non è il solo ottimo. Altri sentieri ci sono, altri se ne possono scoprire, degni di non minor commendazione; e quando altro non ci fosse, almeno l'Anacreontico e Pindarico, tuttochè molto differenti, possono mettere in dubbio la palma. Nè la riverenza de' primi maestri ha da porre in ceppi l'altrui valentia. Anzi, perchè essi pure divennero famosi con ispiegar le penne colà dove niuno era peranche salito; noi, imitando questo lor fortunato ardire, dobbiamo studiarci d' accrescere nuova gloria al secolo, e di conseguir lode più tosto di primi capitani, che di fedeli seguaci.

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MURATORI, Perf. Poes. Vol. III. 9

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CAPITOLO VIII.

Della lingua italiana. Pregio di chi ben usa le lingue. Lingua volgare diversa dalla gramaticale. Sentenza di Dante confermata. Utilità di chi studia le lingue. Vocabolario della Crusca lodato. Non essere il secolo d'oro della nostra lingua quel del Boccaccio. Difetti degli antichi. Contrassegni della perfezion d'una lingua. Secolo d'oro delPidioma italiano dopo il 1500. Opinione del Salviati disam nata Lingua de' moderni più da imitarsi, e necessità di studiarla.

ALLA perfezione della poesia concorre non poco, e suol essere di sommo ornamento il buon uso delle lingue. Perciò farei torto al desiderio che ho di veder perfezionata la poesia d'Italia, se non favellassi ancora del nostro linguaggio. E primieramente bisogna confessare, che non è ugualmente gran lode il saper ben parlare e scrivere italiano, come è gran biasimo il non saperlo. Così diceva Cicerone della lingua latina: Non tam praeclarum est scire latine, quam turpe nescire. L' obbligazione che tutti hanno di ben sapere la loro lingua, diminuisce in parte il merito del saperla. Sembra nondimeno che a' nostri giorni non debba riputarsi poco pregio fra gl' Italiani questa conoscenza, dacchè nel dacchè nel secolo prossimo passato non pochi furono coloro che la trascurarono, e oggidì ancora non pochi fanno

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lo stesso. E questa medesima ragione fece pur dire al mentovato Cicerone, che nel suo tempo il ben parlar latino era molto da commendarsi. Ipsum latine loqui est in magna laude ponendum, sed non tam sua sponte, quam quod est a plerisque neglectum. Per gloria dunque, ma più per obbligazione han da coltivare i veri poeti, o, per dir meglio, ogni scrittore italiano, lo studio della lingua nostra. E certamente non è egli gran viltà che taluno si metta a scrivere nel proprio suo linguaggio senza saperlo? Quando questo bel pregio manchi ai nostri versi, anzi ad ogni prosa, nè quelli nè questa saranno giammai riputati perfetti. Imperciocchè io ben concedo che per cagione della materia e del massiccio delle cose non per la coltura delle lingue, gli scrittori divengono gloriosi. Soleva ancor dire il card. Sforza Pallavicino: ch' egli non faceva gran conto del linguaggio o barbaro, o nobile, o scorretto, o forbito; poichè quando anche Aristotele avesse scritto in lingua bergamasca, egli meriterebbe d'esser più letto, che qualunque altro che avesse scritto con più riguardevole e pulita favella. Ma si vuol ancora concedere che molto minor merito ha chiunque solamente sa distendere in carta un perfetto ragionamento, che non ha chi eziandio sa stenderlo con linguaggio corretto e nobile. Nè lo stesso Aristotele, se in lingua bergamasca avesse dettato i suoi libri, sarebbe letto con tanta cura dagli uomini in quell' idioma, quando i medesimi suoi sentimenti e libri si potessero

potessero leggere in altra lingua più

nobile e pulita, nè sì rozza, come quella di Bergamo. Altro dunque non intese il Pallavicino, se non che principalmente si dee stimare il valor della materia scritta. Ma non negò egli che non crescesse il pregio della materia, se questa ancora si trattasse con purgata, elegante ed eccellente favella. E che questo fosse il suo sentimento, lo mostrò col proprio esempio, avendo, come ognun sa, scritto con assai leggiadria e osservazion della lingua italiana ľ opere sue volgari. Sicchè fa bensì di mestiere agli scrittori lo studiare il massiccio delle cose, ma però senza trascurar l'ornamento esterior della lingua. Non può dirsi quanta nobiltà e vaghezza ricevano le materie dal buon uso delle parole e delle frasi. Questo solo fa talvolta avvenenti, leggiadri e preziosi i versi come si pare in alcuni del Petrarca, i quali non dal senso, ma dalle gentilissime sue locuzioni riconoscono la lor bellezza. Per lo contrario, mancando il condimento della lingua molto men piacciono a chi ha buon gusto i versi, tuttochè ingegnosi e con buona vena composti. Gran fastidio altresì provano gl'intendenti saggi, allorchè prendono a leggere qualche dotto componimento, se si avvengono tratto tratto in parole straniere, barbare troppo plebee, cioè in barbarismi, oppure in isconcordanze, o sia in solecismi.

Nè già s'avvisasse alcuno, che per ben iscrivere in italiano bastasse apprendere la lingua nostra o dalla balia, o dall' uso del faveilar civile. Vi si richiede ancora non solamente la lettura de' più scelti e puri scrittori che

sabbia l'idioma italico, ma lo studio eziandio delle regole gramaticali. Senza questi aiuti infin gli stessi Toscani non possono aspirare alla gloria di scriver bene, quantunque la natura dia loro col latte un linguaggio che più d'ogni altro in Italia alla perfezione s'accosta. Ciò si confessa dai medesimi, e spezialmente da Benedetto Varchi, il quale essendo Consolo dell' Accademia Fiorentina, in una sua orazione così lasciò scritto: Non vorrei già che alcuno di voi credesse che a noi nati ed allevati in Firenze, per succiare insieme col latte dalle balie e dalle madri la nostra lingua, non facesse mestiero di studiarla altramente (come molti falsamente si persuadono). Conciossiachè per lo non vi metter noi nè studio veruno nè diligenza, semo molte volte (oh nostro non men danno che biasimo!) barbari e forestieri nella nostra lingua medesima. E questa questa sola è la cagione che gli strani, i quali siccome in maggiore stima la tengono, e assai più conto ne fanno di noi medesimi così vi spendono intorno molto più tempo e fatica, non pure la scrivono meglio, ma ancora (vagliami il vero) più correttamente la favellano, che noi stessi non facciamo. Che se tanta necessità di studiar la lingua hanno i Fiorentini e Toscani stessi, cotanto privilegiati dalla natura, quanto più ne avranno coloro che nascono in città o provincie d'Italia, ove son corrotti, rozzi e difettosi i dialetti della lingua, e dalle balie questi soli s'insegnano? Si ha dunque da ricorrere allo studio delle regole gramaticali (30), e alla lettura dei

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