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volessero destinata a dilettar solamente. In tal maniera ella non sarebbe che un giuoco, siccome appunto per tale va nominandola Iacopo Mazzoni, ed entrerebbe in ischiera con altre arti che non sono di gran pregio nella repubblica. Laddove se la poesia è, come noi la vogliamo, e come dovrebbe essere per consentimento di tutti i saggi, figliuola o ministra della filosofia morale, maestra de' buoni costumi, e giovevole alla vita civile; bisogna confessarla arte nobilissima, degna d'onori singolari, e necessaria non men di sua madre ai popoli ben regolati. Anzi la poesia in qualche prerogativa è superiore alla stessa filosofia, e ad altre scienze ed arti. Queste per l'ordinario non sogliono e non possono recar benefizio che a pochi felici ingegni, i quali divorano mille fatiche per impararle, non essendo ciò permesso alla maggior parte del popolo. Per lo contrario la poesia (emulata in ciò dall'oratoria) adattandosi ad ogni qualità e condizion di persone, può ammaestrar del pari la rozza plebe e gli uomini più dotti, introducendo in tutti con accorto, onesto ed utilissimo intertenimento l'amore della virtù, l'odio dei vizi. Senza spendere sudori (e quello ch'è più mirabile), senza accorgersi di studiare, può dall' ascoltare o leggere poemi ben fatti, e spezialmente dalla tragedia e commedia, qualunque persona trarre la cotanto necessaria purgazione degli affetti, e con singolar godimento sì dagli esempi, come dai sentimenti che l' eccellente poeta racchiude in versi, bere il sugo della miglior filosofia, cioè il buon governo de' popoli, della famiglia e di sè stesso.

Difficilmente potrà non conoscersi la verità di queste cose da chi si regge co' lumi d'una purgata ragione, e sa che per meritare il titolo di buon cittadino, dee l'uomo non solamente astenersi dal nuocere, ma proccurar di giovare alla sua città. Adunque considerandosi la poesia non tanto come arte fabbricante, ed in sè stessa, quanto come arte subordinata alla politica, convien confessare che il bello di essa consiste nel vero o verisimile maraviglioso e nuovo della natura, dipinto e rappresentato con vivi colori per dilettare; e nel buono cioè nell' onesto, espresso nelle azioni, nei costumi e sentimenti, in guisa che quindi gli uomini apprendano ad amar la virtù, ad abborrire il vizio. O non sarà buono ed eccellente poeta, o non sarà almen perfettissimo, chiunque sopra queste due basi non fabbrica. E di qui dobbiamo trarre due nobilissime leggi dalla prima delle quali niun poeta bramoso del vero onore potrà mai sottrarsi. La prima si è, che dovendo il diletto della poesia contener sanità, non si può, senza commettere sacrilegio contro la facoltà civile e contro la buona filosofia, apportar diletto con argomenti men che onesti e lodevoli, i quali rechino danno agli altrui costumi. La seconda è che, per quanto sia possibile, si dee destramente impastare la poesia di cose e di sentimenti che mirabilmente cagionino, oltre ad un singolar diletto, una riguardevole utilità negli altri cittadini; facendo il poeta ne' suoi componimenti sentir l'odore dell' uomo dabbene, senza che punto vi si vegga l'aria de' predicatori. Perciò ben si

guarderanno i saggi ed ottimi poeti di rappresentare immagini oscene, di dipingere i vizi con livrea vaga ed amabile, o pur d'insegnarli; di dileggiar le virtù e la religione,

di mostrar con velenosa malizia l'una e l'altra conculcate da' vizi trionfanti e impuniti.

Alle regole di questo bello poetico non posero mente alcuni de' più rinomati scrittori, tanto nella presente, come nelle passate età. Ed in questo senza dubbio errò con tutta la sua divinità il principe degli Epici greci, fingendo nell' Iliade che Giove minacciasse di battere Giunone sua moglie; che Venere fosse ferita in una mano da Diomede, e colta dal marito nell'atto dell' adulterio; che gli Dei combattessero fra loro, non men de' Greci e Troiani, ed altre simili strane avventure. Diasi pure a Varrone, a Plutarco, e ad altri partigiani d'Omero, che bastasse, per favoleggiar degli Dei in tal guisa, la rozzezza del popolo, a cui riuscivano probabili, verisimili e dilettevoli queste immagini; e si studino pur essi di coprir sì sconce invenzioni col velo dell' allegoria. Non può negarsi contuttociò che Omero (se pure fu il primo a così favoleggiar degli Dei) non peccasse contro il buono, cioè che con tali favole non pregiudicasse al bene della repubblica, spacciando tante viltà ed empietà degli Dei, onde ne diveniva ridicola, sciocca ed abbominevole quella ch' era bensì tale, ma ch' essi pur credevano vera e buona religione. Certo è come sanno i dotti, che per questa cagione fu Omero altamente biasimato dagli stessi antichi Gentili, e fu perciò sbandito dalla

Repubblica ideal di Platone. Celebre altresì ed ingegnosa in tal proposito è la sentenza di Longino, che alla sez. 7 del Subl. così parla: Ομήρος γάρ μοι δοκεῖ, παραδιδοὺς τραυματα, θεῶν τάσεις, τιμωρίας, δάκρυα, δεσμά, πάθη πάμφυρτα, τοὺς μὲν ἐπὶτῶν ἰλιακῶν ἀνθρωπος, ὅσον ἐπὶ τῇ δυνάμει, Θεοὺς πεποιηκέναι, τοὺς Θεοὺς δὲ ἀνθρώπες. Quando Omero ci riferisce le ferite, le discordie, i gastighi, le lagrime, le prigionie, e le molte altre passioni degli Dei, parmi ch' egli si studii a tutto potere di far tanti Dei di quegli uomini che assediarono Troia, e fare per lo contrario degli Dei tanti uomini. La qual bellissima sentenza fu prima da Tullio adombrata nel lib. 1 delle Quest. Tuscul. ove dice: Fingebat haec Homerus, et humana ad Deos transferebat: divina mallem ad nos.

(1) Del pari con Omero si debbono condannar tutti coloro che negli antichi tempi a Giove, a Mercurio, e agli altri lor Numi furono i primi ad attribuire adulterii, ladronecci, e simili enormi vizi. Poichè quantunque si fosse creduto da que' primi poeti che Giove e gli altri Dei fossero stati prima uomini, come di fatto il furono; pure da che la stolta opinion popolare gli aveva alzati al grado e alla natura divina, dicevolmente non si potevano fingere in essi cotante iniquità e vili operazioni, per non nuocere al credito della lor religione. Poco poi giova il dire collo Speroni, che Omero non men degli altri saggi conoscendo la falsità degli Dei, e riputandoli demoni, destramente s' ingegnò di screditarli in tal guisa, e di renderli ridicoli

appresso

il

popolo. Quando anche potesse provarsi vera questa intenzion d' Omero, il che, se non è impossibile, certo è assai difficile; nondimen egli avrebbe forte nociuto ai suoi cittadini. Poichè non bastavano in guisa veruna i suoi versi per disingannar l'ignorante e credula gente; ma potevano solo operare, che laddove per avventura il popolo adorava e credeva gli Dei non suggetti alle umane passioni, da lì innanzi gli adorasse e credesse e credesse nello stesso tempo capaci di tutte le debolezze nostre; cosa che maggiormente avrebbe guasto, 'non sanato l'intelletto di quelle infelici persone. Che se il popolo credeva prima d' Omero che si dessero negli Dei tante ribalderie o sciocchezze, altro non fece il poeta che sempre più fermar loro in capo questa sì sciocca opinione. In tal caso però si vuol confessare che questa colpa si doveva attribuire alla religione stolta, e non ad Omero. E ciò basta eziandio per provare che non bene operò Omero, quando anche sotto simili parabole ed allegorie avesse egli voluto nascondere qualche punto di teologia o filosofia naturale; perchè sì fatte allegorie potevano sempre più corrompere la credenza de' popoli, come in effetto avvenne, essendosi credute vere e adorate le malvagità di que' ciechi Numi per molti secoli appresso.

Volesse però Dio che ne' soli Gentili avesse trovato degli amadori l'abuso mentovato della poesia, nè si fosse anche steso per la cristiana repubblica e per la lingua italiana. Pur troppo alcuni de' nostri ancor più riguardevoli poeti sonosi cotanto lasciati trasportare dalla

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