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(55) È necessario a noi tutti lo studio della gramatica, cioè della gramatica toscana, essendo finora questa unicamente in possesso, finoacchè non ne venga un' altra d'altra parte d'Italia, che autorizzi tutte le stravaganze che gareggiano colla stravaganza de' climi della medesima, che in poco spazio sono variissimi. E de' più purgati autori, cioè toscani, o che parlano toscano. La lingua nostra, cioè comune e italiana, la quale allora si parla si scrive meglio, quanto più la in sè del toscano, che, come si dice, è il meglio e'l fiore di quella. Senza un tale studio, cioè della unica gramatica toscana, non si schivano i solecismi, fissando ella le coniugazioni, e prendendo le regole del parlare dai suoi autori o toscani, o parlanti toscano.

(56) Ne' tempi nostri, ne' quali si è tornato a coltivar la lingua.) E quando s'era egli dismesso? Parmi che dal Bembo in qua, che diede le regole della lingua toscana e fiorentina, egli Veneziano, per ammaestramento de' Fiorentini medesimi, insegnando loro la lor propria lingua, e per ammaestramento degli altri Italiani, non si sia fatto altro da chi ha voluto nome nello scriver volgare, che coltivare la buona lingua italiana, cioè toscana,

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(57) L'impaniare la lingua nelle voci certo (che gli antichi, per disegnare più l'invischiata pronunzia, scrivevano cierto) perciò, nocivo, dalla maggior parte d'Italia, nè da' Franzesi ancora nè dagli Spagnuoli, si fa, che davanti all' E e all' I 'il C pronunziano, Il dialetto comune a molte e molte città d'Italia dice zerto, perziò, nozivo, paze, con zeta ottusa e dolce. Nè anche i Greci medesimi, se al nome della lettera K, che essi xάñña con forte guisa pronunziano, e all' uso odierno loro, non hanno questa impaniatura del Ci, che così chiamano questa lettera i Fiorentini; gli altri

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MURATORI, Perf. Poes. Vol. III.

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Toscani, come gli Aretini e tutti gl' Italiani, dicono alla latina Ce. Laonde, dove i Latini abecedarium, i Toscani e gl'Italiani abbeccè, i Fiorentini soli dicono abbiccì, quasi da' primi elementi mostrando siccome la pronunzia particolarissima, così particolarissima la lingua. I Greci adunque Kixé pronunziano chicheron; OeTTakevin, Tessalonichi; onde per apocope, o troncamento da capo, Salonicchi; imitati dai Romani nel dire a viso di uomo ponzante, come era quello di Domiziano; granducca, per ischivare la gorgia fiorenma granducha. Vedesi perciò che il dare la pronunzia del Ci alle voci certo, perciò, nocivo, pace, la quale pare più piana e più conforme forse alla pronunzia del Ce latino, e che conservi più la virtù della segnata lettera, senza trasfigurarsi, e passare in suono d'altra non segnata; questo e proprio de' Toscani, la pronunzia de' quali, dal comune consentimento dell'altra Italia, come migliore è seguíta. E l' essere seguíta sopra tutte, e preferita all' altre, la loro pronunzia, da segno che la loro favella ancora, la quale dalla pronunzia non va disgiunta.

(58) Anacarsi filosofo della Scitia sentendosi dagli Ateniesi vituperare la sua lingua e pronunzia, come barbara, dicea loro: lo son barbaro a voi; e voi siete barbari a me. Non ci è maggior ragione che s'abbia a dire più tosto chiesa, che ciesa; occhi, che occi se non che l' una maniera è toscana, l' al

tra no.

(59) Costo, i Fiorentini dicono cesto. Così propasto; quando è nome di dignita? quasi volendo che vi si ravvisi l'origine latina, consto, constas e praepositus, che si sentono profferire da noi coll' O aperto. Così trono si pronunzia come thronus da noi in latino, che il pronunziamo come se fosse povos, e non Spóres, come egli è. Proposta il dicono coll' O piccolo, e il grande usano di rado.

(60) Molte città d'Italia si dice che pronunziano andávamo, portávate colla penultima breve. Adunque queste molte città d'Italia hanno da riformare la loro pronunzia sulla pronunzia toscana; perciocchè la gramatica della lingua italiana, come tante volte s'è detto, non è altro che toscana, e da Toscani, o toscanisti autori fatta e compilata, e dal rimanente di tutta Italia accettata, e vegliante ancora, senza che altra gramatica d'altra lingua particolare di città o regione d' Italia sia mai comparsa, nè si speri anco che abbia a comparire. Andavámo e portaváte seguitano la pronunzia della loro origine latina, ibámus, portabátis. Dante ne fa chiara fede in quel verso Inf. 20:

Si mi parlava, e andavámo introcque,

in cui sull'ottava sillaba posando l'accento, fa migliore suono. Con tutto ciò, l'uso ha prevaluto tra i Toscani, che si dica andávamo; perciocchè così dicendo, coll'antepenultima acuta, la pronunzia ne viene più spedita, e non tanto pingue e tarda, come in andavámo', che, non so come, ha un suono spiacevole a' nostri orecchi. E occorrendo questa parola e simili di dirsi spesso, la ragione e l'analogia n' ha tocche dall'uso, che è il padrone e 'l maestro del favellare, il qual uso non manca della sua ragione. Usum loquendi populo concessi, dice il Maestro della romana eloquenza, scientiam mihi reservavi. So che s'avrebbe a dire andavámo; ma dico andávamo. E il simile fanno molte città d'Italia, seguendo in questo il buon uso toscano, che così pronunzia, andávamo, e non andavdmo, che è di un suono vasto o spiacente; e mosse per avventura da quella stessa ragione del miglior suono che muover dovette i Toscani a mutare contra la regola, e a fare questo solecismo di pronunzia. Portaváte però dai Toscani così si pronunzia, e non portávate ; perciochè la ragione movente a concedere all'andavamo, di potersi e doversi profferire andavamo, perchè egli occorreva spesso d'usare questa forma di verbo, non milita nel portaváte, il quale in parlando non si usa, dicendosi in quel cambio portavi, da che il tu aureo degli antichi

si trasformò, nel ragionare colle persone, nel voi ferreo e barbaro de' moderni. Essendo adunque per comune accordo inteso da tutti, che quando io volgo il discorso a una sola persona, dicendo voi (come se fossero più, quasi che un parli a tutte le qualità della medes ma come sua compagnia e corte) io intendo di dire in sostanza ciò che i buoni antichi dicevano tu: non si è mutato il portavi in portavate, più riguardando al midollo, che alla corteccia, di questo nostro voi. Talchè il portavate, escluso da' familiari ragionamenti e dal parlare, è solo riserbato alle scritture nobili. Andávamo adunque dirà il toscano, e chi il vorrà seguire:

ma

non dirà portavate. L'uso è padrone di far solecismi non solo nella pronunzia, ma, quel che è più, nella lingua: come, per esempio, i Franzesi in vece di dire ma ame, sa Altesse, come l'analogia e la concordanza richiederebbe, dicono con orrendo solecismo, ma introdotto e autorizzato dall' uso, e confermato dal consenso degli scrittori, mon ame, son Altesse. Il governo principale delle lingue è del popolo; ma bisogna che alle riforme ch' ei fa, eruditorum consensus accedat, che è il senato che conferma i plebisciti. L'uso popolare guasta le regole ordinariamente per tre motivi di miglior suono, : di distinzione e di comodità. Egli pertanto fa la sua legge a parte: ma a voler che vaglia universalmente, bisogna che sia passata in senato, cioè tra 'l corpo dei letterati, i quali in materia di pronunzia, quando hanno tutto il popolo contro bisogna che cedano; poichè le più bocche vincono. Ma allorchè si tratta d'innovare in materia di lingua, che è cosa più d'intelletto che di bocca, qui si procede pù maturamente, particolarmente in riguardo ai solecismi, i quali introdotti dal popolo per que' tre capi che ho detto, sono più secoli che in certo modo gli attende a proporre, perchè passino; ma il senato che non vuole le novità, gli ha esclusi sempre e gli escluderà sempre, come pregiudiciali alle leggi fondamentali dello Stato, da nostri Toscani maggiori fondato. Per esempio, per discorrere de' solecismi che fa tutt'ora in parlando il popolo fiorentino; e quando dico popolo, intendo il minuto popolo, i cittadini e i nobili (e ciò io qui faccio per non parere troppo parziale della mia città),

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gli antichi nostri, perciocchè il nostro mai corrisponde all' umquam dei Latini, volendo esprimere il numquam, diceano mai non, non mai. Ma perciocchè questo non non faceva presa col mai, tentò di farne una sola voce, come i Latini, che delle due non umquam n'aveano fatto una, cioè numquam, leggiadra e comoda: così non si potendo fare del mai non, o non mai, accorciando in no mai, o cosa simile, non essendoci vocali tali che potessero fare un buon tutto: ricorse il nostro popolo, per dir anche la sua ragione, come per necessità, a licenziare quel non, e fare che il mai avesse la significanza di non mai, supplendovi quasi la negativa, e facendovela sottontendere il sentimento medesimo, venuto in soccorso. Passò questa riforma tra 'l popolo; ma non ebbe mai la conferma del senato. lo faceva, io diceva, costantemente i nostri antichi Toscani. Ciò pareva confondersi con quegli faceva, quegli diceva. Per maggior chiarezza, luce e distinzione, s' accordò il popolo a dire io facevo, io dicevo; e tanta forza ebbe questo motivo, che ridicolo e affettato sarebbe chi in parlando, o in iscrivendo lettere famigliari, o in bocca a basse persone comiche, dicesse io faceva, io diceva. Alcuni de' nostri ancora la stimeranno libera eleganza, e non necessaria maniera di gramatica e di lingua. Pure l'autorità di quegli antichi Toscani del secol buono, e le gramatiche, che si sono fatte tutte sulle loro testimonianze, hanno fatto sì che gli Amphictioni della lin gua, o vogliam dire i presidenti di quella, cioè gli eruditi di Toscana e d'Italia, non l'hanno ammessa. Con un semplice gli il significare a lui, a lei, loro accusativo e loro dativo, pare al nostro popolo una gran bella comodità e risparmio, quantunque ne vadia al di sotto la chiarezza e la distinzione. Ma perchè gli antichi usarono gli per significare solamente a lui, e loro accusativo; e per significare a lei, si valevano del le (più distintamente in questo, de' Franzesi, presso a' quali luy vale tanto a lui, quanto a lei, cioè tanto gli, quanto le ); e quando volevano dire illis, sempre diceano loro, tennero dall'uso di questi contra l'abuso e la corruttela del popolo. Al contrario molte cose contra l'etimologia, o analogia, introdotte, il senato gliele passò e passa, riconoscendo la maestá

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