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vede, non hanno avuto scrittori; perciocchè non sono state capaci d' essere coltivate e abbellite, come la toscana. La greca aveva infiniti dialetti; ma pochi arrivarono a esser famosi, e ad avere scrittori, per ciocchè non tutte le favelle sono aggradevoli, nè tutte sono capaci d'essere messe in iscrittura, per l'insuavità del suono, per la rozzezza de gli accenti, per lo soyerchio mozzamento delle voci, e per altri difetti naturali.

E poi non solamente in Toscana, ma in tutta l' ltalia perfezionata ec. Non vorrei parere troppo appassionato per quei tre gloriosi maestri che portarono la lingua a sì illustre segno, che da loro le regole e le maniere del ben parlare tuttavia si traggono. Non hanno avuto pari nella proprietà, e purità e sincerità dello stile. Adunque si può dire, atteso massimamente ii vantaggio della nascita e del secolo in cui tutti, anche gl'idioti, parlavano corretto, che non solo coltivassero, ma perfezionassero ancora la lingua; e come tali, fanno e faranno mai sempre autorità, e saranno, come esempi, posti a tutte le genti che in puro e corretto stile vogliono scrivere all'eternità. E guai alla lingua italiana, quando sarà perduta affatto a que' primi padri la reverenza. Darassi in una Babilonia di stili e di favelle orribile; ognun farà testo nella lingua; inonderanno i solecismi; e si farà un gergo e un mescuglio barbarissimo. Io non dico questo, perchè mi dia a credere, essere così sfruttata la natura, che sempre non possa produrre maggiori e maggiori ingegni in qualsisia facoltà. Ma si vede però che a certe angustie di tempi e di paesi ha voluto la Provvidenza ristrignere, per le occasioni e incontri di cose che si son dati allora, e non dopo, la sua liberalità. Gli esempi son troppo noti. I letterati sono comuni ad ogni paese: chi il nega? Chi nega che non possano anche crasso sub aëre nasci i Pindari e i Democriti? Lo spirito, l'ingegno, la vivacità, la perspicacia, il giudicio, lo 'ntelletto, sono frutte che nascono, e nascer possono in ogni terreno. Ma la lingua migliore d'un paese non nasce per tutti i luoghi di quel paese; nasce in un solo e determinato luogo, e da quel solo e determinato luogo le altre parti e luoghi di quel paese pigliano innanzi e l'esempio, e su quell' unico modello

formano, puliscono, e migliorano la loro propria e natia, per lo più rozza e malgraziosa favella. L'attica nella greca, la romana nella latina, la castigliana nella spagnuola, la parigina, o d' Orleans, nella franzese, la sassonica nella tedesca, sono le lingue migliori; e chi bene vuole scrivere, scrive in quelle. Tutti s' accordano a pregiarle e stimarle. Solo la toscana, che senza controversia è la migliore, anzi la sola d'Italia, a cui si dia pregio della più bella, e che ha popolo particolare che naturalmente la parla, incontra difficultà ne gli altri Italiani, che malamente soffrono questo primato; e quello che a lei a principio di comune consentimento diedero, a lei vorrebber ritogliere, fui per dire, poco grati discepoli. Non contenti d'avere tra i loro, epici, tragici, lirici, comici, satirici incomparabili, scrittori di prosa ammirabili, e tutt' ora produrre parti d'ingegno vivacissimi e sublimissimi, pare che vogliano ancora levare a i Toscani quel poco, che a loro restava, del pregio della lingua, il cui possesso, goduto da essi per tanto tempo, si credeano in eterno assicurato, per essere il lor paese la patria e 'l nido di essa lingua, e de' tre illustri scrittori, tenuti fino adesso maestri di quella. Così appresso a poco si querelò Apollonio di Molone, maestro di rettorica in Rodi, allorachè avendo udito nella sua scuola declamare in greco Cicerone, e tutti gli altri facendogli applauso, egli solo, tra le voci de gli acclamanti, mesto, in silenzio, e con gli occhi in terra confitti stava. Addimandato, qual cagione fosse di sua tristezza e di suo silenzio, alla fine esclamò: Dolgomi della sciagura della Grecia, a cui i Romani, dopo avere tolta la libertà e il paese, quel solo pregio, che ci era rimaso, dell' eloquenza e del dire, questo ancora, a quel ch' io veggio, ci vengono a torre. Ciò racconta Plutarco nella Vita del Romano Oratore.

Del resto, per tornare omai donde m'era dipartito, la lingua sassonica è e si può addimandare tedesca ; la castigliana, spagnuola; e così medesimamente la toscana, italiana; e tanto saranno migliori i dialetti tedesco, spagnuolo, italiano, quanto s' accosteranno più al dialetto sassonico, castigliano, toscano, che sono gli esempi e i modelli del comun dialetto di quelle

nazioni. Che gli autori, anche fuori di Toscana, possano essere autori di toscanità, e come tali citati, io nol nego, ancorchè manchino del vantaggio della nascita, che è un grau punto in materia di lingua: che di qui venne la distinzione degli Attici e degli Atticisti, de' Greci e de' Grecisti, o Ellenisti; non perchè tutti non parlassero attico e greco, ma perchè gli Attici il parlavano naturalmente, essendo del paese, e ci aggiugnevano lo studio, necessario a perfezionare la natural dote : gli Atticisti per solo studio parlavano attico, come nati fuori dell' Attica; e perciò gli Attici sono più puri, più schietti e naturali negli scritti loro; gli Atticisti, quantunque pulitissimi, pur sentono per lo più dell' artifizio; e scuopronsi per forestieri, come giusto, Teofrasto da quella vecchia ateniese, ancorchè lungo tempo fosse dimorato in Atene, e, come Aristotele e altri, fattasi domestica e familiare la lingua. Nè perciò si nega che collo studio, e colla imitazione e diligenza, e col fino e purgato giudicio, non possano giuguere a segno di potere essere scambiati da i fini e nativi Attici, come Eliano Romano e il Soriano Luciano. Così gli Ellenisti, che ne' tempi più bassi in Soria e in Egitto, sotto a i Re Greci, greco a loro parlavano, da i Greci anticamente nati erano distinti; talchè vi ebbe chi a tempo del Salmasio cacciò fuori l'opinione del dialetto ellenistico (che tali erano chiamati gli Ebrei di que' paesi, che la Bibbia ancora in greco tradotta nelle sinagoghe leggevano, come si trae da una Novella di Giustiniano) nel qual dialetto fosse scritto il Testamento Nuovo. Opposesi gagliardamente con acutissime e accuratissime scritture a questa nuova opinione il Salmasio, mostrando l'insussistenza di quel nuovo imaginario dialetto; e parte colle ragioni, parte coll' acerbità della satira, sconfisse quel nuovo mostro, e disfece.

Avendo adunque i Toscani due vantaggi per la lingua, la nascita e lo studio; gli altri, uno, cioè lo studio solamente: pare che l'autorità de' primi debba esser prima; dei secondi, seconda. Laonde i tre illustri maestri, Toscani e di nascita e di studio vanno innanzi a tutti, e sono per autorità reverendi. I forestieri in secondo luogo si citano, ma che sono come Toscani,

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perciocchè parlan toscano, e sono stati, per così dire, naturalizzati.

Ma pure consideriamo un poco, per nostro esercizio, quest autori forestieri, che il sig. Fontanini dice essere citati nel Vocabolario. Si cita, dice egli, de' tempi antichi la Rettorica di Cicerone, che fu volgarizzata da Galeotto Guidotti cavalier bolognese nel 1257, e dedicata a Manfredi re di Sicilia, della quale Rettorica parla il Salviati nel vol. I degli Avvertimenti pag. 125, e fu ristampata in Bologna nel 1658, in 12. Io non so come l'autore di questa Rettorica s'intitoli in questa modernissima edizione di Bologna; perchè il Salviati nel luogo qui sopra citato allega una vecchissima stampa, che non Galeotto Guidotti cavalier bolognese lo nomina, ma Padre Maestro Guidotto, o Galeotto di Bologna. I cavalieri nell' antico, come è noto, si chiamavano messeri; i teologi, come anche in oggi, maestri; e scrivendosi messere colla lettera iniziale della parola solamente, e maestro con un picciolo o sopra l' M, può essere che ciò abbia fatto luogo a qualche equivoco. Perciò nel citarlo diversamente dal Salviati, questo affare andava appurato. La copia a penna, di cui ragiona il Salviati, dice che è, come accade quasi sempre in questi libri di lingua, più corretta delle stampe, e di quella antichissima con titolo di Padre Maestro Guidotto, e di quella ristampata in Lione dietro all' Etica di ser Brunetto, ma senza titolo, e che il Salviati ha riconosciuto essere la medesima. Dice quella d'antica stampa, scorrettissima di tutte, in tanto che in altro linguaggio, dice egli, si può dir quasi che sia trasfigurata, benchè nè anche questa a penna crediam legittima in tutto, se nell'età del re Manfredi è pur vero che dettata fosse primieramente. Dubita il Salviati, e dubito anch'io, se nell'età del re Manfredi fosse dettata quella Rettorica primieramente. Ma egli dubita dalle scorrette maniere di parlare che vi ravvisavano, e che a lui pareano proprie d'altro assai più basso secolo, come sarebbe a dire, del 1400. Che però tosto soggiugne: ma trasformavansi questi libri ogni giorno, e ogni copiatore cercava di fargli suoi, con quel che segue. Io dubito per un altro verso, e più forte, che e' mi pare di poter

dire che nel secolo del 1200 ci fosse bensì qualche poeta italiano, ma prosatore no. Che tutti in quel secolo i letterati scrivessero e comentassero in latino, e che tardi si cominciasse a scrivere in prosa volgare, come non istimata lingua di letterati. Quindi con tanta squisita accuratezza si scusa Dante nel Convivio di non fare il comento alle sue canzoni in latino, ma in volgare. Così è verisimilissimo che l'autore dedicasse al re Manfredi la sua opera in latino, e che poi nel 1300 fosse, come tanti altri libri, volgarizzata.

Quanto al Milione di Marco Polo Veneziano, io non ho veduto il Vossio, e non so, se mettendolo tra gli storici latini, egli stimi che quell' opera non in volgare, ma in latino fosse dettata dall'autore. Ma e' non pare che resti alcun dubbio ch' egli non la scrivesse in volgare dal libro latino d'antica stampa in Venezia, che comincia: Librum prudentis, honorabilis, ac fidelissimi viri Domini Marci Pauli de Veneciis, de condicionibus Orientalium, ab eo in vulgari editum et conscriptum, compellor ego Frater Franciscus Pepuri de Bononia Fratrum Praedicatorum a plerisque Patribus et dominis meis veridica, seu verifica, et fideli translacione de vulgari ad latinum reducere. E a questa traduzione di Fr. Francesco de' Peppori o Peppoli di Bologna, è annesso: Itinerarius a terra Angliae in partes Hierosolymitanas, et in ulteriores, transmarinas, editus primo in lingua gallicana a Domino Joanne de Mandeville milite suo auctore anno Incarnationis Domini MCCCLV in Civitate Leodiensi, paulo post in eadem Civitate translatus in dictam formam latinam. Un libro del viaggio d'Inghilterra in Gerusalemme, e nelle parti d' oltramare, pubblicato prima in lingua francesca da messere Giovanni di Mandevilla cavaliere l'anno 1355 in Liege, e poco dopo nella medesima città in lingua latina traslatato. E nell'anno 1370 dice il Salviati che il Milione di messer Marco Polo fu traslatato in latino, di cui crede essere volgarizzamento quello che si legge stampato nel secondo libro delle Navigazioni, cioè del Rannusio, per essere d'altra dettatura che quello della copia a penna di Gio. Batista Strozzi, lodato da lui altamente e per. antichità di favella, e per purità e bellezza di parole

et

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