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potrebbono ancora oggidì recarci i poeti co' veri e perfetti componimenti drammatici, agevolmente, credo io, potrà dimostrarsi. É ben lo conoscono i migliori poeti d'Italia; ma per servire al gusto de' tempi, soffrono questa sforzata ignoranza, non volendo logorare il cervello in compor vere tragedie e commedie, le quali non troverebbono forse o chi le recitasse, o chi di buona voglia volesse ascoltarle. Quindi è che debbono attribuirsi, anzi che ai poeti, alla corruttela de' tempi, e al non buon gusto del popolo, tutti i difetti de' moderni teatri. A me dunque, che mosso dal solo desiderio di vedere un giorno la poesia non solo purgata da' suoi difetti, ma riposta nella primiera gloria, e per conseguente divenuta utilissima alle adunanze de' buoni cittadini; a me, dico, fia lecito e necessario ancora lo scoprire tutti gl'inconvenienti e danni che mi paiono seguire dallo smoderato uso de' mentovati drammi. Confesso ben anch' io, non essere i moderni drammi per l' ordinario se non tragedie vestite della musica. Ma perchè mi pare a dismisura mutato sotto questo abito il sembiante vero delle tragedie, tali non oserei quasi chiamarle, non si convenendo loro, anzi abborrendosi da loro (se pure han da essere perfette) la musica, quale a' nostri giorni s'usa.

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CAPITOLO V.

De' difetti che possono osservarsi ne' moderni drammi. Loro musica perniziosa ai costumi. Riprovata ancor dagli antichi. Poesia serva della musica. Non ottenersi per mezzo d'essi drammi il fine della tragedia. Altri difetti della poesia teatrale, e vari inverisimili.

QUANTO curiosa a trattarsi, tanto difficile a sciogliersi è una quistione assai dibattuta, cioè se le tragedie e commedie antiche non solamente ne' cori, ma ancora negli atti si cantassero interamente e con musica vera. Ciò che possa dirsi o conghietturarsi in questo proposito, io l'ho sposto in una lunga Dissertazione, la quale non ha potuto aver luogo nella presente Opera. Mi basterà per ora di dire, che quando anche fosse vero che quei drammi affatto si cantassero, non perciò la moderna musica teatrale potrebbe sperare dall' autorità degli antichi discolpa o difesa. Primieramente egli è certo che la musica di allora era troppo differente da quella d' oggidì. L'abate Giusto Fontanini, a cui non dispiace l'opinione che interamente le tragedie e commedie si cantassero una volta, pure mi scrive queste parole in una sua eruditissima lettera. In quanto alla musica de' moderni drammi, non credo che ad alcuno possa venire in mente ch'ella abbia simiglianza colla musica antica, la quale era tutta grave e scientifica. E come pure ci fosse

qualcuno che lo credesse, ei potrà facilmente sgannarsi in leggendo le Opere mentovate del Galilei e del Doni. Secondariamente, quand'anche ciò non fosse certo, egli non si può negare che la musica teatrale de' nostri tempi non si sia condotta ad una smoderata effemminatezza; onde ella più tosto è atta a corrompere gli animi degli uditori, che a purgarli e migliorarli, come dall' antica musica si faceva. E questo è il primo difetto de' moderni drammi; nè sarebbe necessario lo stendersi molto in portarne le prove, e in riprovarlo, se l'affare non fosse di gran premura. Ognuno sa e sente che movimenti si cagionino dentro di lui in udire valenti musici nel teatro. Il canto loro sempre inspira una certa mollezza e dolcezza, che segretamente serve a sempre più far vile e dedito a' bassi amori il popolo, bevendo esso la languidezza affettata delle voci, e gustando gli affetti più vili, conditi dalla melodia non sama. Che direbbe mai il divino Platone, se oggidì potesse udire la musica dei nostri teatri; egli che ne' libri della Repubblica tanto biasimò quella che a' suoi tempi spirava alquanto di mollezza, considerandola come infinitamente perniziosa ai buoni costumi de' cittadini? E pure tutta la musica degli antichi, benchè molle, non poteva_mai_paragonarsi a quella de' moderni, la quale (9) per esser forse, come io credo, lavorata con maggior contrappunto, che non fu l' antica, da ogni lato spira effemminatezza, ed infetta i teatri. Da questi non si partono giammai gli spettatori pieni di gravità, o di nobili affetti, ma

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solamente di una femminil tenerezza, indegna degli animi virili, e delle savie e valorose persone.

Benchè però appo gli antichi forse mai non giungesse a tanto artifizio di contrappunto com' è giunta oggidì, la musica; tuttavia testimonio Cicerone nel lib. 2 delle Leggi, che molte città della Grecia per avere abbandonata la gravità e severità della musica, ed essersi date alla molle ed effemminata, divennero piene di vizi, e d' un lusso vilissimo. Lagnasi egli ancora che in Roma più non si servasse quella virile e soda melodia che ai tempi di Livio Andronico e di Nevio era in uso. Ma dopo Cicerone crebbe ancor più nell'ozio de' Romani l'uso. Quintiliano avendo sommamente commendato (come in effetto è da commendarsi) l'uso della musica, soggiunge poscia, ch' egli non loda già e non consiglia quella musica che si ammetteva allora ne' teatri, perchè essa toglieva a' Romani quel poco di coraggio, di spirito e di valor virile che loro per avventura era rimaso: ma lodarsi da lui quella con cui si cantavano una volta le lodi degli eroi, e con cui cantavano gli stessi eroi, e quella che molto vale per muovere e placare gli affetti degli uomini. Son queste le sue parole nel lib. 1, cap. 10. Profitendum puto, non hanc a me praecipi musicam, quae nunc in scenis effeminata, et impudicis modis fracta, non ex parte minima, si quid in nobis virilis roboris manebat, excidit; sed qua laudes fortium canebantur, quaque et ipsi fortes canebant: nec psalteria, et

spadicas, etiam virginibus probis recusanda; sed cognitionem rationis, quae ad movendos, leniendosque affectus plurimum va let. I ditirambi, i nomi, i cori, i cantici, ed altrettali poesie, che allora si cantavan in teatro, ritenevano una melodia simile a quella che regna oggidì ne' nostri teatri. Ciò si biasima dal prudente Quintiliano, e si piange da Plutarco nel Trattato della Musica. Quivi scrive questo dottissimo e gravissimo autore, che i Greci più antichi non conobbero la musica teatrale, ma che spesero tutto lo studio della musica nell' onorar gli Dei, nel cantar le lodi loro, o le azioni degli uomini forti e gloriosi, ammaestrando in cotal guisa i giovanetti. Soggiunge, che a' suoi tempi s' era tanto mutata la cosa, che più non si sentiva nominare, nè si studiava la musica, inventata per profitto de' giovani; e che chiunque voleva apprendere musica, solamente abbracciava quella che serviva ai teatri. Ma prima aveva detto il medesimo autore il suo parere intorno alla musica teatrale de' suoi tempi con queste parole: Venerabile in tutto è la musica, siccome invenzion degli Dei. Usaronla decorosamente gli antichi al pari di tutte le altre professioni. Ma gli uomini del nostro tempo, rifiutando tutto ciò ch'ella ha di venerabile, per quella viril musica e divina, e agli Dei cara, l' effemminata e garrula ne' teatri introducono: musica di quella guisa appunto di cui Platone nel terzo de Governi si lagna. In non minori querele prorompe Ateneo nel cap. 13, lib. 14, per questa medesima cagione.

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