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Antonino Liberale, cap. 19. Vedi inoltre Virgilio, Georg. lib. IV, V. 152, e Colum. lib. IX, c. 2.

Pag. 150.

28 Omero, Iliade, lib. I, v. 249.

IvI.

29 Raccontano di Platone, che, essendo in culla, le api mellificarono sulla sua bocca, presagio di quella sua eloquenza, che fu poi chiamata lingua di Giove. Narrasi lo stesso di Pindaro.

PAG. 151.

30 Alvisopoli è posto fra il Lemene ed il Tagliamento.

PAG. 152.

31 È noto per la mitologia che Ercole aiutò Atlante a portare il peso

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40 La testa di Beatrice è stata modellata sopra quella di Costanza Monti Perticari figlia dell'Autore.

PAG. 165.

4 L'Ariosto amò Alessandra Benucci figlia di Francesco, e vedova di Tito Strozzi. Veggasi il Baruffaldi nella Vita di lui, e il D. Frizzi nelle memorie istoriche della famiglia Ariosti. Anzi, da quanto riferiscono questi autori, non vien lasciato dubbio che Lodovico avesse contratto matrimonio con Alessandra. Egli però che, come dice il Barotti, in questo affare de' suoi amori fu sempre cauto e segreto, non solamente mantenne occulto il matrimonio, ma nè pure fa cenno apertamente dell' amore che portava a questa donna; bene ad essa alludono i seguenti versi del Furioso (C. XLII, St. 93 e seg.):

Tra questo loco e quel della colonna

Che fu scolpita in Borgia, com'è detto,
Formata in alabastro una gran donna
Era di tanto e si sublime aspetto,
Che sotto puro velo, in nera gonna,
Senza oro e gemme, in un vestire schietto,
Fra le più adorne non parea men bella
Che sia tra l'altre la ciprigna stella.
Non si potea, ben contemplando fiso,
Conoscer se più grazia o più beltade,
O maggior maestà fosse nel viso,
O più indizio d'ingegno o d' onestade.
Chi vorrà di costei (dicea l'inciso
Marmo) parlar quanto parlar n' accade,
Ben torrà impresa più d'ogni altra degna,
Ma non però che a fin mai se ne vegna.
Dolce quantunque e pien di grazia tanto L

Fosse il suo bello e ben formato segno,
Parea sdegnarsi che con umil canto
Ardisse lei lodar si rozzo ingegno,
Com' era quel che sol, senz' altri a canto
(Non so perchè), le fu fatto sostegno.
Di tutto 'l resto erano i nomi sculti ;

Sol questi duo l'artefice avea occulti.

PAG. 169.

42 Il presente componimento precedeva i Sonetti e la Canzone Nell'ora che più l'alma è pellegrina, ec., pubblicati dall'Autore nel Sollievo nella malinconia, di cui si è parlato nella nota 4.

PAG. 170.

43 Nome accademico del conte Giulio Perticari.

PAG. 172.

L'EDITORE.

44 Canova amico del conte Perticari, e morto poco tempo dopo di lui.

PAG. 177.

45 Vedi per una pari occasione l'Inno a Giove a carte 175.

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49 Questo componimento fu il primo pubblicato dall'Autore colle stampe.

PAG. 206.

L'EDITORE.

50 Calamità che affliggeva l'Italia quando l'Autore scriveva questa poesia.

PAG. 224.

51 Ho seguíta al solito la lezione dell'edizione della tipografia de' Classici Italiani, nella quale l'Autore ha fatto qualche piccolo ritocco alla

MONTI. Poesie varie.

27*

lezione Bodoniana. Nel Saggio livornese questi componimenti trovavansi già inseriti dall' Autore con disposizione e lezione da cui egli si è molto allontanato di poi, onde non sarà discaro ai Lettori il vederli qui riportati anche sotto quella primitiva lor forma. L' EDITORE.

I.

Et lacrymæ prosunt.
OVID. De Art. Am. I, v. 659.

Or son pur solo, e in queste selve amiche
Non v'è chi ascolti i miei lugúbri accenti
Altro che i tronchi delle piante antiche.
Flebile fra le tetre ombre dolenti

Regna il silenzio, e a lagrimar m' invoglia
Rotto dal cupo mormorio de' venti.
Qui dunque posso piangere a mia voglia,
Qui posso lamentarmi, e alla fedele
Foresta confidar l'aspra mia doglia.
Donde prima degg' io, ninfa crudele,
Il tuo sdegno accusar? donde fia mai
Ch'io cominci le mie giuste querele?
Sai che d'amore io son perduto, e sai
Per chi porto nel cor queste catene,
Che si dolci e gradite io mi sperai.

E tu ch' al pregar mio, ch'alle mie pene
Più ch' uno scoglio in mar sorda pur sei,
Tu mi guidi a morir, crudo mio bene.
Già per questo io non voglio, e non potrei
Lasciar d'amarti; ch' anche dispietata
T'amo
> come pietosa io t' amerei.
Ma dimmi almeno, che ti feci, ingrata?
Dimmi il delitto e la cagion per cui
Quest' asprezza, quest' ira ho meritata.

Fido ogn' istante sulle tracce io fui

Del tuo bel piede, e sol per te negletti
Furo sovente li vestigi altrui.

A te sola io donai tutti gli affetti,

E or m'è dolce il penar pel tuo sembiante
Più che il gioire di mill' altri oggetti.

E perchè dunque dal mio cor costante
Così diverso è il tuo? perchè le parti
Di nemica tu compi, ed io d' amante ?

Qual natura, qual dio potè celarti
Sotto aspetto si mite alma si dura,

Che non giunga l' altrui pianto a toccarti?
Ve' ch' io ne verso per quest'ombra oscura
Un rio dagli occhi, e sol dal tuo rigore
Han le lagrime mie fonte e misura.
Per te, per que' bei lumi, onde il mio core
Senza mercede (ahi rimembranza amara!)
Si forte apprese a sospirar d'amore:

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Per quella bocca di parole avara,

Che a vestirsi talor d'un dolce accento Figlio della pietà mai non impara ; Pace pace una volta al mio tormento:

Stanco di più patir, da' suoi legami

Fugge il mio spirto, e si dilegua al vento. Già non chieggo, o mia vita, che tu m' ami: Degno io non son di tanto ben, nè speri Ottenerlo il cor mio, benchè lo brami. d'amor sciolti e leggieri

Sulle penne

Vadan cercando pur, ch' io ti perdono, Oggetto più felice i tuoi pensieri. Chieggo meno da te volgiti, e in dono

Dammi uno sguardo sol che mi conforte; Dimmi sol che non m' odii, e pago io sono. Di' che non vuoi, nè cerchi la mia morte;

Di' che se t'amo, io non t' offendo, e ch'io
Deggio sperar che cangi la mia sorte.
Tacete, o venticei; taciti, o rio;

Lascia che del mio ben la voce io senta;
Lascia che parli a me l'idolo mio:

Si, che pietosa l'alma sua diventa;

Sì, che vinta s'arrende a' miei martiri,

E del primo rigor par che si penta.

Oh soavi speranze! oh bei desiri!

Oh amor cortese ! e in questo orror solingo

Oh ben sparsi finor pianti e sospiri !

Misero che ragiono ? a che lusingo

La mia barbara doglia, e una gioconda
Idea sognata al mio pensier dipingo ?
Ahi ch' io non odo che tra fronda e fronda
Il patetico suon dell'aure erranti,
E il lamentoso strepitar dell' onda!
Amiche aurette, ruscelletti amanti,

V'intendo, oh dio! v'intendo: ah voi non siete,

Come questa crudel, sordi a' miei pianti.

Col roco mormorar voi mi volete

Dir che al mondo per me tutto è perduto,

E che vicino il mio finir scorgete.

Vien dunque, o Morte; in me quel ferro acuto
Stendi pietosa, e la mia polve omai
Abbia pace in sepolcro oscuro e muto.
De' miei giorni crescenti io non passai
Ancor l'aurora: ma finor s' io vissi
Sol tra gli affanni, ho già vissuto assai.
Degli allori di Pindo all' ombra io scrissi
Cose non vili, ed in lontana arena
Il suon talvolta del mio nome udissi.
Franca il ciel mi donò mente serena,
E natura d'ingegno e d'intelletto
Scarsa non diemmi ed infeconda vena.

Felice me, se un cor diverso in petto
Dato mi avesse, o gli occhi miei facea
Ciechi al bel raggio d' un fallace aspetto !
Ah! che mai rimirarti io non dovea,

Crudo idol mio; ma in quell'amabil viso
Tanta fierezza chi temer potea?

Quel ritenuto lusinghier sorriso,

Quei lenti sguardi, quel parlar soave,
Quel dolce non so che di paradiso;

Ecco l'armi omicide, ecco la chiave

Che il sen m'aperse, e in nodi acerbi e rei

Trasse le voglie mie legate e schiave.

Ma tu, tiranna degli affetti miei,

Che vuoi far di quel cor freddo e restio,
Se con chi t' ama sì crudel tu sei?
Amar vuoi forse chi t'abborre ? Oh dio!

Chè d' odiarti al pensier trema e rifugge
Pien di ribrezzo il povero cor mio.

Forse, stolta! seguir vuoi chi ti fugge?

Ah! ch'io nol posso, e se lo tenta il piede, Amor l'arresta e ogni vigor ne strugge. Perfidissimo nume! alla mia fede,

Ai tormentosi affanni miei tu rendi Questo premio inuman, questa mercede ? Perchè, iniquo, perchè pungi e raccendi Uno spirto già domo, e in chi rigetta Il temuto tuo giogo arma non prendi ? Piglia l'arco, o codardo, e la saetta, Punisci la nemica d'ambidui,

E congiungi alla mia la tua vendetta. Versa in quella gelata anima i tui

Voraci incendi, e trovi alle sue pene La pietà che l' ingrata ebbe d'altrui: Arda senza conforto e senza spene;

E il tuo foco le strugga a mano a mano
E fianchi e nervi e fibre e polsi e vene.
Ahi che contrario Amor ti prego invano!
Egli è qui dentro, e d'atre fiamme armato
Mi stringe il cor colla rovente mano.
All' atroce mio duol lo sconsigliato

Voto perdona, e in pace alfin morire
Lasciami, se v'è pace a un disperato.

Qual moribonda face io già languire
L'alma mi sento, già mi manca il core,
Già comincia la fronte a impallidire.

Il piè vacilla, un gelido sudore

Mi bagna il volto, e fosca mi si getta L'ombra sul ciglio d'un eterno orrore. Addio, care spelonche; addio, diletta Selva romita gli ultimi respiri

Deh tu pietosa nel tuo grembo accetta!

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