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misterj. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgare opinione velato de' nostri affetti, e travestito all' uso mortale. Quindi anche avvenne, che l'unità dell' esser suo fu favolosamente diramata nelle persone di più falsi numi, che a parer loro esprimevano varj attributi divini sotto l'ombra di passioni e sembianze mortali, ch' erano i canali per mezzo de' quali a loro credere Dio communicava con le menti umane, e si svelava a misura del lume che in esse riluceva: onde a' saggi compariva uno ed infinito; al volgo sembrava moltiplice e circonscritto. Per lo che i padri antichi volendo distrarre i gentili dal culto superstizioso e falso non solo adoperavano il vigor della luce evangelica, ma eccitavano ancora alcune autorità de' primi architetti dell' idolatria, e sviluppando i nodi delle favole, facevano apparire qualche principio della Cristiana Fede, sulla medesima tela de' filosofi ed antichi poeti, i quali con la condotta della natura pervennero alla cognizione dell' esistenza, unità, ed immensità divina al qual lume al parer di San Tommaso ci possono servir di grado le potenze della mente e le facoltà della ragione scorta e guidata da scientifica norma. Onde così Giustino martire, come Lattanzio, ed altri antichi Padri, nel tempo che oppugnavano l' idolatria, con acuta e sensata interpretrazione tiravano su questo medesimo punto le sentenze tanto de' primi

poeti, quanto ancora de' filosofi più gravi, come d'Anassagora, Talete e Pittagora, Zenone, Timeo, Platone ed altri, che l'unità della divina natura chiusero in varie cifre, per velarsi agli occhi del volgo che immerso ne' simboli confondea la vera sostanza con gli attributi: come anche in più luoghi Cicerone e Seneca avvertono, e si raccoglie dalla lettera scritta a Sant'Agostino da Massimino Gentile, ove ei dice che essi esprimevano e adoravano le virtù di Dio, sparse per l' universo, sotto varj vocaboli, per essere il di lui vero nome a loro ignoto. Queste immagini e favole create per forza della poetica invenzione, o che si rappresentassero colle parole, o che si delineassero co i colori, o che s'incidessero sui marmi, o che s'esprimessero con gesti ed azioni mute, riconoscono sempre per madre e nudrice la poesia, che transfonde lo spirito suo per varj strumenti, e cangiando strumenti non cangia natura; poichè tanto con le parole, quanto co' marmi intagliati, quanto co' colori, quanto con gesti muti, si veste la sentenza d'abito sensibile, in modo che corrisponda all'occulte cagioni collo spirito interno, ed all'apparenza corporea colle membra esteriori. Discese tal mestiero dagli antichi Egizj primi autori delle favole, i quali rappresentavano gli attributi divini sotto sembianze d' uomini, di bruti, ed anche di cose inanimate sulle quali l'occhio de' saggi ravvisava o scienza delle cose divine e

naturali, o morali insegnamenti: all' incontro il volgo bevea da quelle apparenze un sonnifero di crassa superstizione, sotto la cui tutela viveano le leggi di quell' imperio. Non si contenne nell' Egitto tal' istituto, ma ne trascorsero larghi rivi in Grecia, dalla quale furono altrove in ampie vene propagati. Imperocchè molti rampolli dell' Egitto furono traspiantati in Grecia per mezzo delle colonie, delle quali una si crede, che fosse Atene, ove regnò Cecrope, uomo Egizio, che avendo innestati i costumi dell' Egitto a quei de' Greci, si disse esser di due nature, cioè di serpente e d'uomo. Questi introdusse in Grecia il culto di Minerva, da' Greci detta Atene, da cui la città dov' egli regnò trasse il suo nome. L'altra colonia fu Tebe fondata da Cadmo, il quale era Egizio, ma perchè giunse con navi Fenicie, per Fenicio fu riputato, secondo il parere però di pochi autori. Da questo scambio dicon poi esser sorta la comune opinione, che le lettere fossero a noi venute dalla Fenicia: quando che Erodoto ed altri scrittori stimavano essersi ricevute dall' Egitto, dove per opera di Mercurio furono inventate. Cadmo portò seco i misterj ed il culto di Bacco e, se ben mi sovviene, anche di Nettuno. Danao fu l' altro, che in Grecia fondasse colonie. Questi fuggì dall' Egitto colle sue figlie, e si crede che fosse il primo che fabbricasse nave per aver lo strumento della sua fuga. Le

figlie di Danao, perchè mostraron prima di tutti l'invenzione de' pozzi, ottennero in loro onore tempj ed altari. A questi riti pervenuti in Grecia dall' Egitto succedettero le cognizioni e dottrine che furono dall' Egitto in Grecia traspiantate da molti Greci, che corsero alla fama de' sacerdoti Egizj, la di cui sapienza per varie bocche risonava. Giunse in Egitto Orfeo, giunse Museo, ed Omero quivi giunse ancora: i quali tutti raccolsero la sapienza di quei sacerdoti, e la ravvolsero nel velame, del quale la ritrovaron coperta, esponendola sotto immagini ed invenzioni favolose. Tutta la lor dottrina intorno all'anime, alla materia delle cose, all' unità dell' essere, fu favoleggiata ne' poemi d' Orfeo, sotto la figura d'Iside che esprimeva la natura; d' Osiri che rappresentava la reciprocazione delle cose; di Giove ch' era simbolo dell' esistenza; di Plutone che era immagine della dissoluzione de' composti. E riferisce San Giustino Martire, che Orfeo introdusse presso a trecento sessanta numi. Lumi della medesima sapienza sono gli dei d' Esiodo e d' Omero, che proseguirono il lavoro d' Orfeo colle medesime fila, convenendo in una istessa dottrina, come coloro, che aveano d' un medesimo fonte bevuto. Da ciò si vede quanto sia difforme il concetto comune dalla vera idea della favola. Chi ben ravvisa nel suo fondo la natura di essa, ben conosce non potersi tessere da chi non ha

lungo tempo bevuto il latte puro delle scienze -naturali e divine, che sono di questo misterioso corpo l'occulto spirito: poichè dalle cose suddette si comprende, che il fondo della favola non costa di falso ma di vero ; nè sorge dal capriccio, ma da invenzione regolata dalle scienze, e corrispondente coll' immagini sue alle cagioni fisiche

e morali.

Della natura della favola.

IX. Per lo che la favola è l' esser

delle cose trasformato in genj umani;

ed è la verità travestita in sembianza popolare: perchè il poeta dà corpo ai concetti e, con animar l' insensato, ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate dalla filosofia: sicchè egli è trasformatore e producitore, dal qual mestiero ottenne il suo nome: e perciò stimò Platone, che il nome di Musa sia stato tratto dal verbo μaiwodai, per cagione dell' invenzione, che alle Muse s' ascrive: ed alcuni voglion dedurlo da μúsoda: donde discende mysta e mysteria. Tale ci è anche da Pindaro rappresentata la poesia quando dice, che le Muse abbiano il seno profondo, accennando, che son gravide di saper nascoso. Con tal arte si nutria la Religione di que' tempi, che per esser tutta architettura de' poeti, eccitava 2 Κῆλα δὲ και

Δαιμονων θέλγει φρενας, αμφι τε Λα

τοίδα σοφία βαθυκολ

πωντε Μοισάν.

Pind. Pyth. 1.

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