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nizione e pratica del latino ed italiano idioma, necessaria per trasfondere col grazioso mescolamento delle parole il genio latino nell' italiano, sono insipidi assai e freddi riusciti. Quando che Fidenzio, non solo per sì maraviglioso innesto, ma per il costume che sì vivo rappresenta, e per le passioni, che al suon della Petrarchesca lira con pedantesco superciglio sì vivamente esprime, e per l'applicazione sì propria de' termini grammaticali, ha prodotto un genere di ridicolo nuovo e singolare, di cui a niun' altra lingua è comune la gloria.

Della Lirica. XXVI. Rimane or' a discorrer della lirica, la quale, benchè sembri lunga e malagevole impresa per la moltitudine degli autori, e la varietà degli stili, che nati si credono nella nostra favella; per noi, i quali alla perfetta idea ed alla somma ragione guidar vogliamo i nostri lettori, e che perciò solo ci proponiamo i principali, e que' che sono degni d' esser posti a fronte, o in compagnia, de' Greci e Latini nel primo discorso considerati ; maggior cura e maggior tempo nell' esame di un solo, che nella menzione di molti consumeremo. Imperocchè due stili corrono nella nostra lingua, uno antico di cui è capo il Petrarca, al quale i migliori tanto rassomigliano, che quanto di lui si dice, a futti secondo il loro grado conviene. Onde poco a dir di loro ei resta, dappoichè del Petrarca

ragionato avremo. L'altro chiamasi novello, e con ragione, perchè ha la novità in nostra lingua dalla barbarie de' concetti e delle parole:/ come quello che da ogni miglior Greco e Latino, al pari che dal Petrarca, si allontana. E pure quantunque i suoi inventori non sono più simili a' Greci e Latini che la scimia all' uomo ; nulladimeno danno alle odi loro nome di Pindariche, perchè gonfie di vento a guisa di vesciche s' alzano in aria; o pur d' Anacreontiche, quando in versi corti raccolgono fanciullesche invenzioni. Anzi anche si danno ad intendere d' essere autori di ditirambi, perchè sanno infilzare più parole in una contro il genio della favella sì latina come volgare, e perchè sanno scherzare col bicchiere. Onde lasceremo questi dentro l' obblio de' saggi, ed in mezzo l' applauso degli stolti; e le più pure e vive idee della nostra lirica dal decimoquarto, decimoquinto, e decimosesto secolo raccoglieremo; posti da parte que' del secolo decimoterzo, a' quali conviene quel che di Livio Andronico Ennio dicea,

Versibus, quos olim Faunei vatesque canebant.

Del

XXVII. Ed entrando nel decimo

Petrarca. quarto ragioneremo principalmente del Petrarca ristoratore della lingua latina, e. padre della lirica Italiana nella quale, secondo la facoltà del nostro idioma, le greche e le latine virtù dal loro centro adducendo, seppe la gravi

tà delle canzoni di Dante, l' acume di Guido Cavalcanti, la gentilezza di Cino, e le virtù d' ogn' altro superare, così nell' età sua, come nelle seguenti, nelle quali tra tanti a lui simili non è mai sorto l' uguale. Abbracciò egli nel suo Canzoniere quasi le più principali parti della lirica, poichè i suoi sonetti e sestine (non solo in morte della sua donna, ove sì dolcemente si lagna del rio destino, ma in vita ancora, ove passioni sì di speranza come di timore, sì di desiderio come di disperazione, racchiude) che sono altro, se non che elegie, ad imitazione di Tibullo, Properzio, ed Ovvidio, benchè brevi e corte? E se lunghe le vogliamo ed intere, l'incontreremo prontamente nella canzone della trasformazione, che incomincia, Nel dolce tempo della prima etade;

ovvero in quella,

Si è debile il filo, a cui s' attiene;

pur in quella,

Di pensier in pensier, di monte in monte; ed in altre simili da miserabili e dolenti note, particolarmente nella seconda parte sulla morte di Laura composte. Se Catulliano ed Anacrecntico stile vorremo, avanti ci verranno le due semplicissime e gentilissime sorelle,

Chiare, fresche, e dolci acque ;

Se 'l pensier che mi strugge ;

con tante vaghe e dolci ballate. Se Oraziano spirito e quasi Pindarico volo desideriamo, l' uno e l'altro scorgeremo nelle tre canzoni degli Occhi, e nell' altre in lode di nobili campioni, e spezialmente del Romano Tribuno. De' nobilissimi e gravissimi Trionfi non parlo, perchè uppartengono all' epica, non alla lirica poesia. I quali componimenti fioriscono tutti di scelte e vaghe sentenze, d' espressioni quanto vigorose, altrettanto proprie dal nostro idioma, colte appunto nel tronco, dove la volgare e latina favella' uniscono. Le quali espressioni, quantunque da straniero luogo non vengano, pur nuove giungono ed inaspettate all' orecchio, tirando la novità non dalle parole, ma dalla fantasia di cui vanno ripiene. Onde non con introdurre nella nostra lingua locuzioni e numeri e metri, ch' ella rifiuta, ma coll' estro loro producendo e colorando alla medesima luce simil si rende a' Greci ed a' Latini; la cui immagine avrebbe egli nel nostro idioma regenerata intera, s' avesse concepito quell' amore impuro, di cui emendato fu sì dalla nostra religione, come dalla Platonica dottrina che rivoca l'amore dalla servitù de' sensi al governo della ragione.

ovvero Pla

Dell amore XXVIII. Onde non rappresentò razionale, gli atti esterni della passione ed i piatonico. ceri sensibili, colla qual rassomiglianza i poeti Latini si rendono cari e piacevoli al

voigo, traze da ritratti delle proprie voglie e de proprý duetti o ma debeò e trasse fuori quel che Dei faso del anno suo nascea, e che nascer solamente suade in queño de' saggi, dove siccome tott gå akti affetti, così questa passione si va puriñcando, e nèucendo a virtù. Perciò manca a questo eccesso lirico parte del concorso, che bando i Latini; i quali agli eruditi al presente, ed al volgo ancora, quando era in uso la lingua, recavan dilettto : nè raccoglie il Petrarca, se non che da' dotti e filosofi, e particolarmente da quelli, che hanno famigliarità con simile amore: senza il quale questo poeta in buona parte rimane ascoso alla cognizione anche de' letterati. Poichè chi esperto non è di questo amore, quantunque goda della dottrina, ingegno, ed ornamento, non può però conoscere la vivezza e verità della rappresentazione. Conciossiachè a coloro che gli stessi affetti in se non riconoscono, quelle del Petrarca sembrino invenzioni sottili più che vere, ed esagerazioni pompose più che naturali p e particolarmente a' fisici e democratici filosofi, onde per sua gloria questo secolo felicemente abbonda. I quali esplorano sì attentamente l' azioni del corpo, che ponendo in obblio quelle dell'animo, trattano questo amore, come una chimera di Socrate e di Platone, o come onesto velame di vietati desiderj. Ma se contemplar vorranno la natura della virtù, la quale è un

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